«C’è una malinconia che sempre mi accompagna. Un dolore, presente. Non sono mai soddisfatto di nulla» mi diceva in una conversazione telefonica pochi giorni fa Antonello Venditti. Straordinario riconoscimento della naturale insoddisfazione che caratterizza l’essere umano, e, allo stesso tempo, affermazione del desiderio che emerge prepotente.
Come ha detto qualcuno proprio su IlSussidiario.net, «il fenomeno paradossale del desiderio umano che, in quanto tale, non può mai arrestarsi a una soddisfazione determinata e “oggettivata”, potrebbe significare anche un’altra cosa, e cioè che la natura dell’io è per così dire “fatta” o “strutturata” come rapporto con l’infinito».
Se c’è una forma di espressione artistica – se la parola arte non sembra troppo per quello che ci si ostina a chiamare solo canzonette – che ha espresso in modo magistrale proprio questa insoddisfazione del cuore dell’uomo, è la musica rock degli ultimi cinquant’anni. Pur fra (tanti) bassi e (pochi) alti. Ma quegli alti sono una testimonianza straordinaria. Ain’t Ever Satisfied si intitolava una canzone di Steve Earle, songwriter texano, “non sono mai soddisfatto”.
Un’insoddisfazione tale che arriva fino alle porte del Paradiso: “L’altra notte ho sognato che ero riuscito ad arrivare alla terra promessa, ero fermo al cancello e avevo le chiavi in mano. San Pietro mi diceva, vieni avanti ragazzo sei finalmente a casa. Risposi, no grazie Pete, devo continuare a muovermi”. Quasi che neanche il Paradiso possa colmare l’insoddisfazione strutturale del cuore dell’uomo. Ma Steve Earle è sempre stato un ragazzaccio, finito anche dietro le sbarre, e forse l’esempio non è dei migliori, anche se a me viene sempre da sorridere ogni volta che ascolto questi versi.
Più di trent’anni fa, ragazzino di 13 anni, compravo il mio primo disco, ellepì come si chiamavano allora. Era l’estate del 1976 ed era il regalo per la promozione all’esame di terza media. Avendo da poche settimane scoperto un cantante per me ancora del tutto sconosciuto, Bob Dylan, avevo ben in mente quale fosse il disco che volevo come regalo. Era l’allora suo nuovissimo disco di canzoni inedite. Si intitolava “Desire”, desiderio.
Allora non mi feci molte domande sul motivo perché Bob Dylan avesse scelto quel titolo, ma oggi ripenso con piacere che quel titolo ha segnato tutta la mia vita e non in modo casuale. In un certo modo quel disco e quella parola, "desiderio", hanno marchiato a fuoco la mia vita.
Desiderio, quale parola più bella per incominciare il proprio viaggio dall’adolescenza alla maturità, parola a cui nel bene e nel male sono rimasto sempre fedele come sete inestinguibile di felicità e di compimento del mio cuore, e che nella musica rock ha sempre trovato corrispondenza. Raramente questa musica mi ha tradito, anzi mi ha fatto una compagnia formidabile.
Come ha detto qualcuno, “Cara musica, grazie per essermi stata vicina quando nessun altro lo era”. E mi è capitato spesso. Certo, non sono così naïve da prendere sul serio quello che Jenny, la protagonista della canzone Rock’n’Roll di Lou Reed, diceva in quel brano, e cioè che la sua vita era stata salvata appunto dal rock’n’roll. A oggi, più di trent’anni dopo aver comprato “Desire”, mi trovo davanti a una canzone di una semisconosciuta band canadese, i Great Lake Swimmers, che mi conferma la bontà di quell’intuizione originaria.
Che altro dire, davanti a dei versi come questi: “Sono ancora intonato a uno strumento di più grande e sconosciuto disegno, sto ancora cercando una direzione, un qualche tipo di segno, mi intono ancora alla grande chiave, ancora, ancora”. Questo è desiderio: che la vita si compia, che il mistero si sveli, che il cuore rimanga aperto e disponibile a incontrare questo mistero, se vorrà farsi incontrare. Vent’anni prima di questi giovani canadesi, un altro canadese, molto più famoso e molto più anziano, esprimeva lo stesso desiderio, in modo ancor più evidente: “C’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che passa la luce”.
È solo tenendo la ferita aperta, infatti, che possiamo imbatterci nella realizzazione di quel desiderio a cui Bob Dylan aveva dedicato un intero disco. E d’altro canto, lo stesso Bob Dylan, una decina di anni dopo aver titolato così quel suo disco, lasciava trapelare una delle confessioni più laceranti di questo desiderio. In una canzone intitolata (e dedicata) a un oscuro blues man di inizio del Novecento che si chiamava Blind Willie McTell, e così si chiamava la canzone stessa, Blind Willie McTell.
In quel brano, rievocando gli sterminati e solitari panorami dell’America di confine, quasi come se fossimo davanti allo schermo cinematografico di un film come Paris, Texas, Bob Dylan a fine canzone diceva: “Dio è in Cielo, e noi tutti vogliamo ciò che è Suo, ma sete di potere, avidità e corruzione sembrano essere tutto quello che rimane”. Il nostro desiderio è infinito, dice Dylan, tanto da farci desiderare appunto Dio, l’infinito.
Ma la nostra fragilità è altrettanto grande e ci rimangono in mano solo polvere e delusioni. Eppure, “sto guardando fuori della finestra del St. James Hotel e so che nessuno sa cantare il blues come Blind Willie McTell”. Già: finché ci sarà una voce che si alza potente e struggente come quella di quel vecchio bluesman cieco, il nostro desiderio rimarrà sempre nel nostro cuore. Garantito.