Saremo per caso costretti a ricordare il 2010 come l’anno di Lady Gaga? Ci ricorderemo il 2010 per qualche bella canzone oppure per il sempre più pervasivo e noioso uso che la tivù italiana (e non solo) fa delle ugole e delle melodie?
Per piacere, non scherziamo! Dovendo rifletterci per bene direi che l’anno va ad ascriversi sotto la voce “nulla di veramente straordinario”, però con tante cose piccole o grandi da ricordare e conservare. Provo a stilarne un elenco (mancante di tante cose e ovviamente determinato dal gusto, che altrimenti saremmo costretti all’uguaglianza, alla squallida classificazione, alla monotonia critico-discorsiva…).
Grandissime sono state le prove quelle di alcuni autori di valore assoluto anche se di fama non planetaria come John Mellencamp (“No Better Than This”, disco registrato come negli anni Sessanta), Peter Wolf (“Midnight Souvenir” è un ritorno strepitoso per l’ex vocalist della J.Geils Band), la Natalie Merchant di “Leave Your Sleep” (capolavoro poetico in due cd) e il magnifico Stan Ridgway (“Neon Mirage”), che confermano classe, stile, vena compositiva e personalità di gente che è in circolazione da parecchio e non ha ancora appeso al chiodo la voglia di scrivere belle canzoni.
Tra i nomi pseudo-emergenti conserverei tre dischi di folk-songwriting: “4th of July” di Joe Purdy (stupenda sorpresa), “Cold Satellite” di Jeffrey Focault e l’enorme “Farewell My Love” di R.G. Morrison (inglese fino al midollo, ma che pare nato in Okhlahoma); da sentire anche il live del tedesco Get Well Soon, “Live at the Konzerthaus Dortmund”, che si fa ascoltare come un mix sospeso tra Eels e Loudon Wainwright. Qualcuno dirà: e i Kings of Leon, astri nascenti? Fate voi: “Come Around Sundown” è interessante, ma non l’ho sentito indimenticabile. Altri chiederanno: e Michael Jackson?
Con tutto il rispetto: disco inutile per ascolti distratti. Meglio dedicarsi a cose radicalmente più stimolanti, al limite alla tecnologia ad alta tensione di "Griots and Gods "degli elettronici Young Gods (tra le formazioni più influenti nel loro genere), oppure al nuovissimo (uscito su web il 25 dicembre e decisamente ricco di spunti, tra cui un duetto con Bobby Womack) dei Gorillaz, Fall, che conferma la versatilità di Demon Albarn.
Cosa hanno dato i grandi vecchi in questo tramontante 2010? Difficile dimenticare due opere notevoli come "Mojo", ritorno discografico di Tom Petty e il "Live at the Troubadour" di Carole King e James Taylor. Non male (ma non indimenticabile) anche il nuovo "Clapton", dell’inossidabile slowhand, mentre un po’ troppo autoreferenziale è parso il ritorno della leggenda Quincy Jones: meglio di loro sia Elton John in compagnia dell’immarcescibile Leon Russel ("Union"), che Robert Plant ("Band of Joy"), che continua a sfoderare perle nel solco della tradizione Made in Usa. Gran disco rock, poi, per il maledetto-rinato Richard Ashcroft: "United Nations of Sound" è roba ben fatta e con gran carica (Born again è tra le migliori canzoni dell’anno).
Le donne del pop sono una impressionante driving force sul mercato mondiale, da Ryhanna a Beyonce, ma credo che nessuna abbia inciso un disco così elegante ed equilibrato come Sade, con il suo "Soldiers Of Love". Le artiste che hanno acceso la luce più densa e pregevole sul panorama sono (a parte la Merchant) l’americana Shaun Murphy ("Trouble with lovin"), Regina Spektor (appena uscita con un bel "Live In London") e la giovanissima inglese Laura Marling ("I Speak Because I Can").
Per quelli che hanno qualche passione verso il rock sinfonico e progressive, direi che due album sono da mettere in dispensa per il futuro. Il ritorno alla leggerezza spirituale ma anche alla qualità di Jon Anderson (voce solista degli Yes) con "Survival And Other Stories" e il mastodontico Whirld tour 2010, "Live in London" dei Transatlantic di Mike Portnoy, che sono riusciti nell’impresa di incidere tutto The Whirlwind, un pezzo unico in 13 movimenti, per un totale ininterrotto di circa 80 minuti di rock).
Grandi prove blues per Kenny Wayne Shepherd ("Live in Chicago") e per il vecchio ma sempre graffiante Buddy Guy ("Living Proof"). Per quelli che “il rock deve suonare a lungo” e si appassionano per le jamband made in Usa, direi che "Dirty Side Down" dei Widespread Panic è un disco da incorniciare, guidato da uno dei migliori chitarristi viventi, Jimmy Herring.
Durante l’anno gli italiani hanno brillato qua e là, anche se (per fortuna) il periodo si chiude con tanti dischi nuovi usciti e un generale ritorno all’ascolto della canzone italiana. Di certo il doppio Work In Progress" di Lucio Dalla e Francesco De Gregori è uno di quei lavori che non bisogna perdere, così come un altro live, "Il tempo e l’armonia", di Fiorella Mannoia. Parlando di rock guai dimenticare il "Rolling Live" di Massimo Priviero, che a mio modesto parere è più vero e sincero sia dell’"Arrivederci Mostro" di Ligabue, che del "Chocabeck" di Zucchero, per non parlare di "Le strade del tempo" delle Vibrazioni (band che suona rock con tutti i crismi, ma che purtroppo sceglie di continuare a rivolgersi alle quattordicenni).
Tra quelli che stanno in cima alle classifiche, non riesco ad appassionarmi o ad ascoltare con un minimo di interesse un bel gruppo di personaggi usciti da non so dove (Scanu, Mengoni, Amoroso), mentre a loro modo i nomi di Negramaro ("Casa 69") e Francesco Renga ("Un giorno bellissimo") sono in linea con quanto già dato: belle confezioni per canzoni di buona scrittura, applauso di stima.
Prodotto di livello decisamente più alto è invece "Ivy", con cui Elisa conferma che abbiamo in casa un bel valore da esportazione, senza paure del confronto con dei classici anglosassoni (la sua versione di 1979 degli Smashing Pumkins è da lode): forse è da lei che ci è arrivato il prodotto migliore nel genere pop-rock.