A fianco di ogni grande rock star c’è sempre stato un grande manager. Senza di quel manager, la rock star con ogni buona probabilità non sarebbe mai diventata tale. Oggi non ci sono più i grandi manager, ed ecco uno dei motivi per cui non esistono neanche più le grandi rock star. Spesso e volentieri questi manager non sono stati esattamente degli stinchi di santo tanto è vero che i rapporti fra artista e suddetta persona sono finiti in aule di tribunale.
Se invece questo non succede (di andare cioè in tribunale) può succedere che l’artista venga talmente spolpato e prosciugato da finire al cimitero, mentre il manager continua ad ingrassare. E’ il caso di Elvis Presley, sfruttato fino alla morte dall’implacabile Colonello Parker. Senza il quale però Elvis probabilmente sarebbe rimasto una curiosità dei circuiti musicali di provincia del Sud degli States. Altri musicisti rock hanno dimostrato più carattere e si sono tolti di torno i loro Colonelli Parker.
Ad esempio Bob Dylan, che finì in tribunale con il suo manager Albert Grossman (senza del quale Dylan non sarebbe mai diventato la star più influente degli anni 60). Un altro personaggio che vale la pena citare: Peter Grant, il manager dei Led Zeppelin, anche se costui a onor del vero aveva ottimi rapporti con la band, tanto che picchiava a sangue chiunque cercasse di registrare senza permesso i concerti degli Zep. Erano personaggi un po’ volgari, appunto brutali, che anteponevano soldi e successo a tutto, ma che entrano però di diritto nella storia del rock tanto quasi i musicisti che hanno aiutato a portare al successo.
Perché la storia del rock è stata spesso una brutta e sporca storia, al di là dei "sogni di rock’n’roll" che ognuno può costruirci attorno. Uno che spesso è stato paragonata al Colonello Parker è Mike Appel, un nome che oggi ricordano solo i più sfegatati fan di Bruce Springsteen. Il suo rapporto di lavoro (e di amicizia, parola questa che con Bruce assume sempre un ruolo fondamentale) è finito in aule di tribunale, e i modi rudi e i gossip che il tempo sempre accumula ne hanno fatto di lui una sorta appunto di Colonello Parker.
“Non sono un Colonello Parker” dice Mike Appel nell’intervista che ci ha rilasciato. “ Sono un cantautore, un musicista, un arrangiatore, un produttore, un cantante e per ultimo anche una sorta di manager”. Una cosa è certa: senza Mike Appel non ci sarebbe mai stato il Bruce Springsteen di “Born to Run” e di tutto quello che ne sarebbe seguito. Se non altro perché il contratto discografico con quella che era la più importante casa discografica al mondo glie lo trovò proprio Appel. Dopo le battaglie legali e qualche decennio di tempo, Bruce e Mike sono tornati in ottimi rapporti.
Il film “The Promsie” che racconta proprio quel periodo difficile, appena uscito, è l’occasione per contattare Mike Appel e farsi raccontare il suo punto di vista,. Perché la storia, si sa, la scrivono sempre i vincenti. E Mike Appel, a differenza del Colonello Parker, è stato un perdente.
Come sei entrato nel mondo della musica?
Da ragazzo, negli anni 60, ero in un gruppo rock che si chiamava Ballonn Farm, un nome che prendemmo in prestito da un club di proprietà di Andy Warhol. Avemmo anche un certo successo: un nostro brano intitolato A Question Of Temperature entrò nella top 40 della classifica di Billboard. Ascoltavo tutto il rock’n’roll della prima ondata, mi sono fatto le ossa con i dischi di Elvis, Chuck Berry, Jerry Lee Lewis, Eddie Cochran, Little Richard, Gene Vincent, Jody Reynolds, Buddy Knox, Buddy Holly, PJ Proby, Larry Williams…
Quando hai conosciuto Bruce Springsteen ti occupavi già di management di altri artisti?
Sì, ero già nel music business. Incontrai Bruce la prima volta negli uffici della Wes Farrell Organization a New York. Wes Farrell è stato uno dei massimi produttori di musica di ogni tempo, ha fatto vendere qualcosa come 300 milioni di dischi ed è stato anche autore di canzoni, ad esempio Hang On Sloopy incisa dai McCoys o Come A little Bit Closer’ and Let’s Lock The Door And Throw Away The Key per Jay and The Americans. Avrebbe prodotto anche la Patridge Family. Bruce si era recato da lui in cerca di un produttore e di un manager.
Cosa voleva dire fare il manager a quei tempi, i primissimi anni 70?
Era la cosa più bella al mondo. Lavorare nel music business in quel periodo era tutto l’opposto di quello che il music business è oggi, una roba morta e cadaverica. Oggi è tutta questione di soldi. Avvocati, manager, agenti e cassieri hanno preso in mano il music business. Tutti i grandi uomini che fecero l’industria discografica sono morti. A quei tempi c’era passione e amore per la musica.
Fu difficile arrivare a contattare John Hammond (celeberrimo discografico della Columbia Records che mise sotto contratto tra gli altri anche Bob Dylan e Billie Holiday, nda)?
Mi feci largo, in un modo o nell’altro, e arrivai a lui. Joh Hammond fu fondamentale affinché Bruce Springsteen firmasse un contratto con la Columbia Records.
Quell’etichetta, di “nuovo Bob Dylan” che fu appiccicata a Springsteen, fu un’idea tua e di John Hammond?
Furono i giornalisti e quelli della Columbia Records a chiamarlo “nuovo Dylan”. Fu strumentale il fatto che anche Dylan venne scoperto da John Hammond e che anche lui incideva per la Columbia. Ma per quanto mi riguarda non avevano niente in comune. Ti dirò, ascoltavo pochissimo i dischi di Bob Dylan, per cui non mi sarebbe mai venuto in mente di paragonarlo a lui.
Che cosa ti colpì di Springsteen da farti decidere di lavorare per lui?
I testi delle sue canzoni e la sua forza sul palcoscenico. I testi di una canzone per me sono sempre stati fondamentali in un brano e lui scriveva testi incredibili. Non è vero, come hai detto tu, che pensassimo che Springsteen fosse venuto a riempire un vuoto nella scena rock, perché allora la scena rock era fatta di artisti straordinari e di dischi meravigliosi. Non c’era nessun vuoto da riempire. La nostra speranza allora era che Bruce riuscisse a entrare in una scena musicale che prevedeva artisti favolosi come i Doors o i Jefferson Airplane.
Dal mio punto di vista, “The Wild, the Innocent and the E Street Shuffle” è il miglior disco di Springsteen, ancor più di Born to Run”, un ritratto incredibile della New York di quel periodo quasi fosse un film di Martin Scorsese. Cosa ne pensi?
Se ti dicessi che sono d’accordo, penseresti che dico così perché quel disco l’ho prodotto io. Ma sono abbastanza d’accordo comunque. Quel disco fu un evento totalmente artistico, ed è raro che un musicista riesca a ripetersi agli stessi livelli nel corso della sua carriera, che faccia cioè un altro album così speciale e ricco di sensibilità. Fu un disco davvero facile da registrare, fu un periodo molto pacifico e il prodotto finale venne fuori ancor meglio di quanto avessimo pensato saremmo riusciti a fare.
Quale fu la vostra reazione quando “The Wild…” si rivelò quasi un flop commerciale?
Qualunque artista o produttore rimane deluso quando qualcosa in cui hanno creduto e lavorato duramente non diventa un successo. Ma devi superare la cosa perché devi andare avanti e muoverti verso nuovi obbiettivi.
E’ vero che la realizzazione di “Born to Run” fu invece lunga e faticosa?
Incidere quel disco fu come un parto, un parto rimandato di continuo.
Hai scritto un libro, “Down Thunder Road: The Making Of Bruce Springsteen”, che racconta il tuo punto di vista del rapporto tra te e Bruce.
Ma se vuoi chiedermi se lui abbia letto o no il libro, non ne ho la più pallida idea. Scrivere quel libro è stato come riandare indietro e ricostruire pezzo per pezzo la nostra vicenda, durante la produzione dei suoi primi tre dischi e poi la rottura e la causa legale.
A proposito di battaglia legale… Come ne parlò Bruce, fu per lui un colpo duro, la fine di un’amicizia in cui aveva creduto fortemente, la disillusione che diede poi vita a un disco come “Darkness on the Edge of Town”…
La battaglia legale in realtà fu creata da alcuni avvocati che avevano un interesse malizioso nella faccenda. Una volta che ci finimmo dentro, io e Bruce, non ci fu modo alcuno per noi di uscirne fuori e risolvere le cose in modo intelligente.
Poi Jon Landau prese il tuo posto a fianco di Bruce…
Bruce e Jon insieme hanno ottenuto un successo mondiale e ci hanno fatto anche un sacco di soldi. Ma va bene così. Sono sempre stato certo sin dall’inizio che Bruce avrebbe ottenuto il successo che ha ottenuto.
Cosa ne pensi dei dischi che Bruce ha inciso dopo aver smesso di lavorare con te?
“Tunnel of Love” è uno dei miei favoriti. e Adesso tu e Bruce siete di nuovo in buoni rapporti… Hai visto il film “The Promise”, che ne pensi?
Siamo di nuovo amici da diversi anni. La nostra amicizia non è nata per caso, tanti anni fa. Credo che il regista Tom Zimmy abbia fatto un lavoro egregio con il film “The Promise”. E’ fatto davvero bene da ogni punto di vista. Mi sono piaciute tantissimo quelle vecchie immagini che ha recuperato. Non sapevo neanche che esistessero sino a quando non le ho viste.
Di cosa ti occupi adesso? Sei ancora nel music business?
Sto lavorando al lancio di un musical che ho scritto io stesso, si intitola "In The Shadows Of The King". Non mi occupo più di produrre o fare il manager per musicisti. Non voglio più occuparmene a questo punto della mia vita. Non ho visto alcun artista interessante oggigiorno, La scena musicale corrente è morta ed è morta ormai da decenni.
Da sinistra: Jon Landau, Bruce Springsteen e Mike Appel