Mentre un po’ in tutto il mondo la riflessione sulla musica pop e rock fa ormai parte della fascia “alta” della cultura ufficiale, l’Italia, forse più miope che classica, resta a guardare.
Il rock e, più in generale, la canzone popolare rimangono fuori dalla maggior parte degli atenei come un elemento estraneo alla cultura, come un incidente di percorso, come un sottoprodotto della contemporaneità, un po’ come i fumi di scappamento del motore a scoppio.



Per fortuna c’è qualche segnale positivo. All’Università di Bologna sta infatti per avviarsi un corso dedicato alla canzone, un programma con tanto di crediti per gli studenti dopo due anni di gestazione “sottotraccia”.
Lo tiene Francesco Giardinazzo, studioso di Dante e della Commedia e docente di letteratura americana a Forlì: da lui ci siamo fatti raccontare i segreti di questo corso così eccentrico rispetto alle abitudini togate degli atenei nostrani.

Il corso universitario Forme e Stili della Lingua poetica nella Canzone Italiana Contemporanea giunge quest’anno alla sua terza edizione: possiamo fare un po’ di storia di questa iniziativa?



La nascita di questo corso universitario è subordinata alla fondazione del Centro Internazionale della Canzone d’Autore, sull’iniziativa di Davide Rondoni e Lucio Dalla, e la collaborazione di molti colleghi che hanno creduto alla necessità di prestare maggiore al mondo trascurato della canzone. C’è anche da dire che in una regione come l’Emilia Romagna, che ha dato così tanto alla musica, sembrava almeno paradossale che l’incontro con la musica in ambito universitario non trovasse un luogo di confluenza.

anzoni e cantanti all’Università: siamo sicuri che sia l’oggetto giusto al posto giusto?



L’università oggi deve saper rispondere al cambiamento senza snaturarsi, e per questo motivo credo che il posto possa diventare quello giusto a patto di rispettare i ruoli: io sono un docente, non un dj. Certamente  la “canzonetta” non è molto amata nei chiostri delle università. In fondo, è come riproporre un divario, che credo altrove superato, fra cultura “alta” e cultura “bassa”, o peggio ancora, fra “aristocratico” e “popolare”. Si corrono certamente dei rischi, ma i rischi a cui penso riguardano la possibilità di costruire una riflessione attendibile su questo genere di “documenti”.

Quest’anno hai deciso di dedicare il corso all’utopia nella canzone d’autore, come mai? Utopia non è un termine ormai consegnato al passato?

Sì, ma è il passato che non passa quello che generalmente mi interessa e soprattutto il presunto superamento di determinati concetti. Credo che “utopia” sia un termine “talismano” della cultura. Naturalmente la prima e più immediata declinazione è quella dell’ambito politico-filosofico. Ma qui vorrei proporre una determinata accezione del discorso utopico basandomi anche sulle teorie di Fredric Jameson, che potrebbe proporsi in questi termini essenziali: il discorso utopico, attraverso la proiezione “en avant” – l’eco rimbaudiana è esplicita – ci parla di ciò che manca oggi, adesso.

L’uso dell’utopia è quello di scandagliare le mancanze e le discrepanze del nostro presente. Non un progetto di umanità migliore e perfezionata (c’è qualcosa di vagamente sinistro nel concetto di “società perfetta”), quanto piuttosto il progetto di denuncia di una “società imperfetta”, nella quale appunto l’utopia si pone come critica del dato di fatto. Insomma, la canzone ci dice le cose che non vanno, anche quando sembra proporre un non definito momento in cui andranno meglio.

Come hanno reagito negli scorsi anni gli studenti al Corso?

Dalle domande che venivano fuori alla fine delle lezioni, e dai commenti sparsi credo che ci sia stato dell’interesse, e va da sé che gl’incontri coi cantanti hanno attirato un numero davvero alto di persone… non solo per il nome, immagino, ma anche per la situazione abbastanza irrituale di ascoltare dei racconti e delle conversazioni. Ma quando fai queste cose sai di vincere facile… voglio dire, non capita tutti i giorni di avere la possibilità di vedere questa gente fuori dal palcoscenico, reale o mediatico che sia. All’estero ci son fior di musicisti che insegnano all’università.

Qui in Italia le cose vanno un po’ diversamente e la canzone d’autore è ancora vista come fratello povero della cultura che conta: come mai?

“Qui in Italia” introduce sempre una differenza rispetto all’altrove spesso, purtroppo, di segno negativo. Qui mi pare il caso di insistere sulla negatività della differenza. Tenendo presente che gente come Ron Carter tiene dei corsi di contrabbasso negli atenei americani, per dire, o che la stessa Esperanza Spalding, altra contrabbassista emergente di gran talento, insegna nell’università dove si è diplomata nello strumento prediletto, mi sembra difficile vedere compiuta una cosa analoga da noi. “Qui in Italia” sarebbe come affidare dei corsi di poetica e retorica a Lucio Dalla. Insomma, questo è il riflesso accademico del pregiudizio che la canzone non sia poesia e che l’artista “pop” altro grave fraintendimento linguistico ed estetico, non contribuisca in modo significativo al discorso artistico contemporaneo.

Negli anni scorsi avete proposto all’interno delle lezioni dialoghi con artisti come Giovanni Lindo Ferretti, Capossela, Lolli. Avete in programma altri “incontri con l’autore” per quest’anno?

 

Sì, certamente. Chi vorrei? Fossati, Battiato, Conte, De Gregori, Guccini e forse quest’ultimo evento potrebbe verificarsi davvero. Ma questo discorso è necessariamente vago perché ancora non abbiamo ricevuto conferme. Quello che posso dire di abbastanza certo è che abbiamo invitato Luigi D’Onofrio e Monica Affatato, due registi di una casa di produzione indipendente, la Route 1, che hanno realizzato un docu-film, un piccolo gioiello dedicato ad un grande della musica come Demetrio Stratos “La voce Stratos” e implicitamente, dunque, agli Area.

Una domanda personale: per te, professore, quali sono i musicisti senza cui non si potrebbe vivere?

In effetti, senza musica non si potrebbe vivere. Sarebbe come chiedermi quali libri porterei sull’isola deserta. Scegliendo assolutamente “par coeur”, primo a siderale distanza da chiunque, Jimi Hendrix, seguito da un drappello formato da Led Zeppelin, Deep Purple, Area, The Police, The Clash e Bob Marley, più tutto il blues che si riesce a caricare.
Tra i nostri cantautori, direi senz’altro Rino Gaetano, l’amatissimo Tenco, Bindi (ah, Bindi!), Fossati, De Andrè, Dalla, Paolo Conte, Pino Daniele, il primo Bennato, Capossela e anche alcuni baldi giovanotti come Daniele Silvestri, Max Gazzè, Samuele Bersani, Niccolò Fabi.

E il jazz no?

John Coltrane primo fra tutti, poi Miles, Monk, Rollins e fra i nostri, Fresu, Bosso, Rita Marcotulli…

E la cosiddetta “classica”?

Bach, Beethoven, Mozart (in particolare la trilogia dei drammi dapontiani, una cosa sublime), Luigi Nono…

E se dovessi indicare tre canzoni, non una di più, che hanno segnato la tua vita, che non ti stanchi mai di ascoltare?

Little Wing, Message in a bottle, Camera a sud. Mi pare chiaro che nell’età dell’iPod scegliere soltanto tre canzoni, questo certamente, sia un fatto veramente utopistico. E anche decisamente crudele.