Quando era uscito “Blood and Candle Smoke”, l’avevo ascoltato con grande emozione: mai come in questo disco Tom Russel, texano, uno dei grandi e solitari songwriter degli ultimi decenni, era riuscito a colpire al cuore.
Già quella copertina con santini e candele poteva incuriosire, ma la prova dell’ascolto era vincente e definitiva, con tante canzoni che raccontano vita e poesia, frontiera e povertà. Ho cercato Tom per chiacchierare con lui, per farmi raccontare cosa si nasconde nelle canzoni di questo musicista di cinquantotto anni, laureato in criminologia (da cui una delle canzoni del disco, Criminology) e amico di tutti i poeti della beat generation, da Ferlinghetti a Bukovskji. Ecco cosa mi ha risposto dalla lontanissima El Paso, la città dove vive da oltre dieci anni.



Tom, dopo venticinque anni dal tuo esordio, hai estratto dal cappello questo “Blood and Candle Smoke”. Cosa ne pensi: è il tuo capolavoro?

Cercando di essere oggettivo, direi che forse è il mio miglior disco da tanti anni a questa parte. Ha ottenuto grandi recensioni e commenti da parte di tanta gente e di giornalisti che di solito non mi seguivano per niente. Inoltre sta vendendo il doppio degli altri miei dischi, che non guasta.
Credo che oggi la scrittura delle mie canzoni sia diventata più essenziale e precisa e inoltre la produzione complessiva del disco, grazie all’atmosfera dell’Arizona, l’ha trasformato in un album dal suono naturale, vicino alle radici della world music e credo dunque possa piacere ovunque, a un pubblico non limitato.

Certi racconti di questo cd mi ricordano Flannery O’Connor, Faulkner… Quanta letteratura c’è nella tua ispirazione?



Tanta, davvero tanta. Amo Flannery, Salinger e Graham Greene soprattutto. Credo che “Il nocciolo della questione” e “Strade senza legge” siano state una grande ispirazione per questo disco.
 
E l’amicizia con Charles Bukovsky quanto ha influenzato la tua musica?

Se devo essere sincero non ha inciso più di tanto. La sua importanza per me sta nel fatto che la gran parte della letteratura nordamericana viene dalle università o dall’ambiente di New York, lui viene da un’altra parte.
La mia relazione con Charles – a parte alcuni incontri – è stata soprattutto fortemente epistolare. Da lì ho approfondito tutto quello che mi è interessato di più, che è la fotografia di un’America di gente comune, non ti tipi colti o introdotti nei bei salotti.



Guadalupe: la canzone forse più bella del tuo nuovo disco suggerisce una… esperienza. Ci sei stato veramente al Santuario?

La storia è lunga e personale. Sono convinto che Città del Messico sia la Roma della nostra epoca e della nostra civiltà. Macchè New York o Los Angeles o Mosca: è Città del Messico il centro di tutto: quasi trentamilioni di persone ammucchiate da tutto il mondo, spesso senza sapere cosa ci fanno.

E il Santuario che c’entra?

Ci ho trascorso un pomeriggio intero e una lunga notte, sei anni fa. Non ci ero mai andato ma me ne hanno parlato in tanti: a El Paso la gente che non ci è mai stata si conta sulla punta delle dita. Ci sono andato per la messa di mezzanotte di Natale, la sera in cui le donne indiane portano le loro statuette di Gesù bambino all’arcivescovo che le benedice con l’acqua santa. Il mio cuore batteva insieme alle canne dell’organo del 1700 che soffiava gli antichi inni religiosi…

Cosa è successo in quella notte di Natale?

 


 

Quella sera io ero lì, nello scrigno del santuario, davanti a quella immagine. Eravamo tutti davanti a quella immagine. Guadalupe. Stiamo parlando di un’immagine che è tatuata sulla schiena di bandidos messicani rinchiusi nel braccio della morte. È la madre delle Americhe. Io non ho riscoperto la religione davanti a quell’immagine e non ho cominciato a predicare in mille lingue differenti, però ho capito quello che ha scritto Carlos Fuentes: «Puoi non considerarti cristiano, ma on puoi considerarti un vero messicano se non credi alla Madonna di Guadalupe». La fede che si sente nel Santuario trascende il normale cattolicesimo, è storia. Tutto accade sotto il cielo e sotto lo sguardo di Guadalupe. Quella sera ho raggiunto la coscienza che non ero solo nel mio domandare. C’era una nuova luce nei miei occhi, riflesso di migliaia di candele. È lì che mi sono venute le parole della canzone, “Chi sono io per dubitare di questi misteri?/ Cresciuti in secoli di sangue e fumo di candele/ io sono l’ultimo dei tuoi pellegrini/ quello che ha più bisogno di speranza”.

Le tue canzoni seguono la grande scia di Leonard Cohen e Johnny Cash. A tuo parere la grande tradizione degli storyteller americani è ancora viva?

Decisamente no. La canzone d’autore è una forma d’arte ormai morta in America. I nuovi autori spesso mentono e non hanno… palle. Ma in ogni momento potrebbe emergere un nuovo Dylan dal Sud Dakota o a Calcutta. Non perdiamo la speranza…

Come ci si trova a vivere a El Paso dopo aver provato Los Angeles, la Nigeria, il Canada, la Spagna…?

El Paso-Juarez è la terra del delirio: qui ci sono 2000 ristoranti messicani e oltre 3000 persone sono state assassinate a Juarez negli ultimi due anni. Questo è l’ultimo brandello rimasto diSelvaggio West: è come essere in un film, solo che è realtà…

Tom, quale è il tuo ultimo progetto?

Proseguire l’idea “roots on the trails”: un treno che attraversa il Nordamerica con a bordo un gruppo di musicisti folli che suonano le canzoni della tradizione. Partiremo la prossima primavera per attraversare la California e il Sudovest. A bordo ci saremo io, Dave Alvin e i Flatlanders. Peccato che l’Italia non si possa raggiungere sui binari…