C«Coloro che vengono qui soltanto per ascoltare una commedia gaia, licenziosa e rumore di scudi cozzanti; coloro che vengono qui per vedere un buffone in veste multicolore, listato di giallo, saranno delusi nella loro aspettativa».

Così recitava (rifacendosi allo shakespeariano Enrico VIII) l’epigrafe posta sulla testata della Neue Zeitschrift für Musik (“Nuova rivista Musicale”) fondata nel 1834 dal ventiquattrenne Robert Schumann.  Il grande compositore, di cui ricorre quest’anno il bicentenario della nascita, fu infatti un critico e promotore musicale di indiscusso valore.  



L’entusiasmo con cui il giovane musicista affrontava lo studio della “nuova musica” dell’epoca ci permette di omaggiare in un solo articolo due grandi artisti che, oltre ad essere coetanei, furono (caso assai singolare) anche amici.  

In un celeberrimo articolo infatti Schumann offre una illuminata e illuminante analisi (il termine appare quantomai riduttivo a paragone con la frizzante prosa schumanniana, così carica di immagini fantastiche) delle Variazioni sul duettino “Là ci darem la mano” del Don Giovanni op. 2 di Chopin.



L’incipit è memorabile.  

«L’altro giorno Eusebio entrò leggermente in camera nostra.  Tu conosci l’ironico sorriso del suo pallido volto, con cui cerca d’eccitare l’attenzione. Io sedevo con Florestano al pianoforte.
[…] Con le parole «Giù il cappello, signori; un genio» Eusebio ci mise innanzi un pezzo di musica: non ci consentiva di vederne il titolo. […] Ma qui mi parve che mi guardassero meravigliati tanti occhi del tutto sconosciuti: occhi di fiori, occhi di basilisco, occhi di pavoni, occhi di ragazze: in più luoghi la cosa diventava più chiara – credeva di vedere il ‘Là ci darem la mano’ di Mozart, attraversato da cento accordi; mi sembrava che proprio Leporello ammiccasse e Don Giovanni volasse dinanzi a me nel bianco mantello
».



Qui, nel suo caratteristico gioco di maschere (Eusebio, pensoso e malinconico, Florestano entusiasta ed esuberante) Schumann dispiega la sua arte di “musicista delle parole” in un fuoco di fila di intuizioni poetiche di rara lungimiranza e generosità (quanti musicisti oggi sono capaci di una simile apertura verso i colleghi?).

Dopo l’ouverture di stampo marcatamente teatrale l’articolo prosegue con la descrizione dell’esecuzione pianistica:

«Suona, dunque» disse Florestano. Eusebio acconsentì e noi ci mettemmo ad ascoltare nel vano d’una finestra. Eusebio suonava come ispirato facendoci sfilare innanzi innumerevoli forme della più vivace vitalità: così come se l’ispirazione del momento sollevasse le dita oltre l’abituale misura della loro capacità. Veramente, tutta l’approvazione di Florestano, tolto un beato sorriso, consistette soltanto nelle parole che le variazioni potevano essere di Beethoven o di Franz Schubert, se questi fossero stati in ispecial modo virtuosi del pianoforte; ma com’egli voltò la pagina del frontespizio, null’altro vi lesse che: «Là ci darem la mano, varié pour le Pianoforte avec acc. d’Orchestre par Frédéric Chopin, Oeuvre 2» e tutti e due esclamammo meravigliati: «Un’opera 2!»; allora i visi s’infiammarono di stupore inconsueto e fra le varie esclamazioni si potevano distinguere queste frasi: «Sì, ecco finalmente qualcosa di ragionevole – Chopin non ho mai udito questo nome – chi può essere? – ad ogni modo – un genio – non ridono là proprio Zerlina o Leporello?».

Il terzetto (l’autore dell’articolo – nascosto sotto l’ulteriore pseudonimo di Julius – Eusebio e Florestano) si reca dunque da Meister Raro (ulteriore incarnazione della multiforme fantasia schumanniana) che accoglie con sufficienza la pagina senza, in verità, nemmeno guardarla.
Da qui l’estro del compositore si libera da ogni catena e si lancia in caleidoscopiche descrizioni che valgono molto più delle analisi “farmaceutiche” di tanta musicologia contemporanea.

«Florestano, che da qualche tempo non ha un’abitazione sua, volò a casa mia per la viuzza illuminata dalla luna.  A mezzanotte lo trovai nella mia stanza disteso sul divano, con gli occhi chiusi. «Le variazioni di Chopin» cominciò come in sogno «mi girano ancora pel capo: certo» continuò «il tutto è drammatico e notevolmente "chopiniano"; l’introduzione, per quanto sia conchiusa in se stessa – ti ricordi dei salti di terze di Leporello? – mi sembra che meno s’accordi coll’insieme; ma il tema – perché poi l’ha scritto in si bemolle? – le variazioni, il finale e l’adagio, sono davvero qualcosa! – il genio sbircia qui da ogni battuta. Naturalmente, caro Julius, Don Giovanni, Zerlina, Leporello e Masetto sono i caratteri che parlano – la risposta di Zerlina nel tema è assai innamorata, la prima variazione si potrebbe forse definire un po’ signorile e civettuola – il grande di Spagna scherza qui molto amabilmente con la contadinotta. Ma questo si modifica nella seconda, ch’è già più confidente, più comica, più litigiosa, come quando due innamorati cercano di ghermirsi e ridono più del consueto. Ma come tutto si muta nella terza! qui v’è tutto un chiarore di luna e un incanto di fate; Masetto se ne sta, a dire il vero, lontano e impreca in modo intelligibile, ma Don Giovanni se ne lascia turbare ben poco. – Ora, della quarta, che ne dici? – Eusebio l’ha suonata tutta con purezza – come balza ardita e sfrontata e come va dritta allo scopo, e l’adagio (mi par naturale che Chopin ripeta qui la prima parte) in si bemolle minore, non potrebbe accordarsi meglio con l’insieme, poiché con aria moraleggiante rammenta a Don Giovanni le sue azioni – e certo è male, ma grazioso, che Leporello aguzzi gli orecchi, rida e beffeggi dietro il cespuglio, e che gli oboi ed i clarinetti lusinghino e zampillino magicamente e che lo sbocciante si bemolle maggiore indichi proprio il primo bacio d’amore. Ma tutto questo è niente a confronto dell’ultima variazione – hai ancora del vino Julius? – questo è il finale tutto intero di Mozart – turaccioli di champagne che saltan tutti, bottiglie che tintinnano, e in mezzo la voce di Leporello, poi gli spettri che ghermiscono, Don Giovanni sfuggente – e poi il finale che s’acquieta magnificamente e suggella l’opera».

 

Il genio di Schumann riesce a cogliere nel testo chopiniano una sorta di summa, di sintesi dell’intero Don Giovanni in una semplice ghirlanda di variazioni.  Nel contempo però la sete di poesia, di bellezza, di verità esistenziale porta il compositore tedesco a una digressione lirica di rara profondità.

«In Svizzera soltanto egli aveva avuto, concluse Florestano, una sensazione simile a quella provata in questo finale. Cioè, quando nelle belle giornate il sole al tramonto sale sempre più in alto sulle ultime cime dei monti ed infine scompare l’ultimo raggio, viene un momento in cui pare di vedere i bianchi giganti delle Alpi chiudere gli occhi. Si ha l’impressione d’aver avuto una visione celeste. «Ma ora svegliati anche tu per nuovi sogni, Julius, e dormi!» «Mio caro Florestano» risposi «questi sentimenti personali son forse da lodare, sebbene siano alquanto soggettivi; ma […] io piego egualmente il capo dinanzi a un tal genio, a una tale aspirazione, a una tale maestria.» E su questo ci addormentammo».

Il “sogno” musicale si trasfigura e confluisce nel sonno dei due interlocutori (entrambi, non va dimenticato, maschere dietro le quali si nascondeva Schumann) che chinano il capo davanti alla maestria e, nota bene, all’aspirazione chopiniana verso la totalità dell’esperienza umana racchiusa in suoni che hanno il potere di spalancare l’animo, facendo vibrare le sue più intime corde.

Il legame tra i due musicisti, alimentato inizialmente dalla magnanima e illuminata intuizione schumaniana (non si dimentichi che il ventiquattrenne Chopin era ancora poco noto) proseguirà anche nelle composizioni del tedesco che, nel Carnaval op. 9, metterà tra le maschere del suo personalissimo martedì grasso anche “Chopin” in un breve e poetico brano che riassume in maniera strabiliante la quintessenza dello stile del musicista polacco senza peraltro appiattirsi in mera imitazione.  Lo spirito ardente di Schumann deve abbracciare, anche nella sua produzione, il giovane collega che tanto lo aveva sorpreso all’inizio della carriera.

D’altra parte, come Florestano, il buon Robert non poteva soffrire «coloro la cui vita non è in armonia con le opere». 

Oggi siamo ancora capaci di chiedere altrettanto?

 

 

Variazioni sul duettino "Là ci darem la mano” del Don Giovanni op. 2 di Chopin
Prima Parte
Idil Biret, pianoforte

 

 

Variazioni sul duettino "Là ci darem la mano” del Don Giovanni op. 2 di Chopin
Seconda Parte
Idil Biret, pianoforte