Tutti i giovani hanno i loro idoli, nel calcio come nella musica. Anch’io scoprii di averne in gioventù quando le truppe americane entrarono in Italia e mi innamorai del Jazz. Formai così una band dixieland con i miei amici e iniziai a dedicarmi completamente a questa musica. Pian piano scoprii che oltre alle bande di New Orleans c’erano anche musicisti che si esprimevano in maniera completamente diversa.



Mi entusiasmò da subito uno strano personaggio che suonava una tromba particolare con la campana rialzata. Si chiamava Dizzy Gillespie. Era dotato di una tecnica funambolica, ma non solo. Aveva un gusto particolare nel modificare i temi dei classicissimi standard, tanto da renderli irriconoscibili ai più. Più tardi venni a sapere che era uno dei padri del Be Bop.



Stiamo parlando dei lontani anni Cinquanta, tempi in cui quando un artista americano veniva in città per un concerto il gruppo degli appassionati si radunava in stazione o all’areoporto. Alcuni di noi addirittura mettevano in piedi un complesso in modo da accogliere “degnamente” il gradito ospite.

Dizzy Gillespie era atteso a Roma e così ci presentammo tutti in aeroporto. All’epoca avevo una Vespa, i miei amici invece formavano una carovana di vetture.
Sceso dall’aeroporto Dizzy puntò dritto alla mia Vespa, iniziando a scorazzare per le piste dell’aeroporto di Ciampino. Dovette intervenire una jeep dei carabinieri per portarlo via.



Farlo arrivare in città non fu una cosa semplice, ma eravamo ben organizzati. Una macchina americana decappottabile era pronta per potergli far ammirare la città e portarlo all’albergo. Dizzy però si era innamorato della Vespa e voleva a tutti i costi raggiungere Roma guidandola. Dopo una lunga trattativa si riuscì a mettersi in viaggio: Gillespie sul sellino, dietro di me.

La scena fu indimenticabile: un signore con la pelle color ebano, cappotto, scarpe e vestito neri, bombetta e un enorme binocolo in mano scrutava la città, senza rinunciare ai complimenti alle belle ragazze.

Era il 1952, suonò al Cinema Teatro Adriano di Roma una musica rivoluzionaria. L’anno prima avevamo potuto ammirare Armstrong e per alcuni  oltre quel tipo di musica non si poteva andare. Chi come me era di orecchie più aperte rischiava addirittura di passare per un tipo un po’ strano. Ma quella era la musica dei neri, che anche durante la guerra avevano subito la discriminazione razziale nell’esercito e segnava una discontinuità con quella musica da intrattenimento che stava segnando il periodo post-bellico.

Dopo questa avventura romana Dizzy e io diventammo amici e così iniziai a seguire il suo tour europeo a Copenhagen, Amsterdam, Londra sia con il J.A.T.P. (Jazz at the Philarmonic) sia con altri gruppi.

 

 

Al Palladium di Londra il suo gruppo divideva la serata con l’organista Jimmy Smith. Ero curioso di sentirmi un concerto di organo Jazz, la mia esperienza si limitava agli ascolti di Fats Waller. Fu tutto inutile però perché incontrai Dizzy dietro le quinte prima del concerto e pretese di giocare a scacchi per tutto il primo set. Non ci fu modo di convincerlo a lasciarmi ascoltare Jimmy Smith e purtroppo non ebbi più l’occasione di farlo. Dizzy era fatto così.

 

 

Dopo parecchio tempo, passeggiando per Manatthan vidi una locandina di un concerto del Dizzy Gillespie Combo in una piazza di Harlem. Presi la metropolitana e arrivai in una grande piazza con una chiesa e una scalinata, dove una moltitudine di persone aspettavano sedute il concerto. Il camion parcheggiato in un lato della piazza sarebbe poi diventato il palcoscenico.

La piazza era piena, io l’unico bianco, intorno a me sguardi ostili e guardinghi. Finalmente arrivò Dizzy, d’istinto gli andai incontro, lui mi riconobbe e mi abbracciò.
Il concerto doveva iniziare e tornai al mio posto nella scalinata. Ricevevo pacche sulle spalle da parte di tutti quelli a cui passavo vicino. “Brother”, così mi chiamavano i miei nuovi fratelli del Jazz.

(Adelchi Cremaschi)