Nel panorama della musica del XX secolo un autore si staglia al crocevia tra musica colta e musica popolare, riuscendo a coniugare in maniera non folkloristica o “intellettuale” le due tendenze in un unico, inconfondibile linguaggio. Stiamo parlando dell’ungherese Béla Bartók (Nagyszentmiklós, 25 marzo 1881 – New York, 26 settembre 1945), pianista raffinatissimo e compositore tra i maggiori dell’intera Storia della musica.



Magnifico esempio della capacità di sintesi bartokiana è la Suite op.14 per pianoforte di cui proponiamo la magistrale interpretazione dell’Autore.
Composta nel 1915-16 la pagina è divisa in quattro movimenti che ci forniscono molti spunti per affrontare e decifrare l’enigmatico e affascinante mondo musicale dell’artista ungherese.



Il primo numero della partitura è costituito da un robusto Allegretto in cui una melodia evidentemente modellata sul canto popolare viene più volte ripetuta in una singolare alternanza di intonazioni liete e pensose. È come se l’Autore, in questa prima parte di movimento, ci mostrasse con chiarezza che l’appartenenza a un popolo e alle sue tradizioni non risulta contraddittoria rispetto alla libera espressione artistica o, addirittura, a quella che potremmo definire arte d’avanguardia.

Così anche la successiva sezione [0’32”], più pensosa e inquieta, non rinnega le sue ascendenze folkloriche. È sorprendente vedere come Bartók non usi il materiale popolare come semplice ingrediente “caratteristico” ma lo assimili profondamente, facendolo diventare parte essenziale della sua lingua musicale. Il compositore non si riferisce dunque semplicemente al “popolare” ma pensa secondo quelle modalità retoriche.



La libertà rapsodica del linguaggio folklorico (specie di quello ungherese) permea anche il successivo Scherzo [1’43”], sorta di ronda di folletti in cui compare [1’58”] uno straniato tema di corni accompagnato da stridenti sistri acuti. 

Dopo il fugace ritorno del tema iniziale [2’11”] un nuovo motivo dal sapore burlesco [2’18”] si inserisce repentinamente in un tessuto musicale sempre in bilico tra leggerezza e sarcasmo. Il bizzarro universo tratteggiato da questo secondo movimento apre una sorta di breve spiraglio sui legami ancestrali che innervano la cultura popolare (la terra, gli spiriti della natura, i riti propiziatori e le feste).

Qui l’Autore trasfigura con grande raffinatezza (e con altrettanta disinvoltura linguistica e formale) gli aspetti ora citati in un gioco di chiaroscuri che apre più domande di quante riesca a chiudere. Il successivo, tempestoso, terzo movimento (Allegro molto) [3’30”] col suo turbinoso e incessante movimento di crome (per certi versi affine allo Studio op. 10 n. 12 di Chopin) sembra trovare ispirazione in quegli aspetti di cui avevamo già trovato traccia nel precedente Scherzo.

Tutto è perennemente in moto e non si vedono solidi appigli cui ancorarsi. Con gesto di grande pregnanza espressiva e strutturale Bartók arresta brevemente il flusso musicale [4’09”] raggelandolo in uno screziato episodio accordale in cui vengono presentate le tonalità di Fa#, La, Do e Mi bemolle (ovvero quelle che, nel peculiare sistema armonico del compositore, incarnano la funzione di Tonica) nell’estremo tentativo di recuperare una stabilità tanto necessaria quanto apparentemente irraggiungibile.

 

 

 

Rapidamente veniamo riportati al turbine iniziale [4’40”] che questa volta è spinto fino alle estreme regioni acute della tastiera. In questa tenebrosa terza sezione della Suite veniamo dunque catapultati nel cuore dell’angoscia e del dubbio. Qui la febbre di vita di Bartók (presente anche nel coevo Castello del Duca Barbablù, un atto unico di incandescente temperatura espressiva) contagia ogni gesto musicale, forzato al punto da far desiderare un’oasi di pace evidentemente impossibile.

Senza interruzione attacca quindi il conclusivo Sostenuto [5’26”] che trasforma in composta malinconia la veemenza del movimento precedente. Il sostegno armonico di tutta la prima parte è enunciato con estrema chiarezza all’inizio di ogni battuta, anche se la definizione univoca di un punto di riferimento appare quantomeno problematica. L’atmosfera à la berceuse e l’intenso lirismo trovano un momentaneo contraltare nell’episodio centrale, caratterizzato da un tormentato cromatismo [6’48”].

La parte conclusiva [7’07”] che riprende, variandoli ampiamente, alcuni elementi dell’esordio è una sorta di lungo, dolcissimo commiato in cui la malinconia domina incontrastata su un tessuto musicale sempre più rarefatto. Partito dalla esplicita dichiarazione di appartenenza a una specifica tradizione (quella ungherese) Bartók ci ha condotti, senza contraddizione alcuna, a esplorare i più intimi moti del cuore umano, mostrandoci ancora una volta come l’identità di ciascuno (umana ancor prima che etnica o nazionale) si chiarisca proprio grazie alla consapevolezza dell’“essere-di”.

 

 

 

Proprio dal creativo sentirsi parte di un popolo di “cercatori” prende le mosse l’esplorazione che la Suite ci invita a compiere e che, sembra dirci l’Autore, potrà avere un termine soddisfacente solo quando troveremo una risposta alla sussurrata domanda che chiude malinconicamente l’incantato epilogo della composizione.