Pietre miliari della letteratura pianistica e nel contempo capolavori immortali dell’intera storia della musica gli studi del polacco Fryderyk Chopin sono pagine che sanno racchiudere in uno spazio temporale circoscritto interi mondi.

La fantasia poetica del compositore raggiunge qui, a nostro avviso, uno dei suoi vertici massimi regalandoci 27 meravigliose istantanee che illuminano le pieghe più riposte del cuore umano in un caleidoscopio di immagini che teme ben pochi confronti.



I primi dodici Studi (pubblicati nel 1833) sono riuniti dall’autore nell’op. 10 e fin dall’inizio lasciano trapelare (in diversi modi) l’immensa ammirazione che Chopin nutriva per Bach, maestro per molto tempo dimenticato e proprio in quegli anni riscoperto e riproposto al grande pubblico da Felix Mendelssohn-Bartholdy. 



Diverse pagine della raccolta (studi , , 5-6, 11-12) si trovano riunite in coppie che rispecchiano l’assetto tono maggiore – relativa minore (n.1 Do Maggiore – n.2 La minore, n.3 Mi Maggiore – n.4 Do# minore, ecc.), elemento che a buon diritto può considerarsi indice di un progetto che, almeno nelle intenzioni, intendeva realizzare una composizione in ogni tono (maggiore o minore) seguendo in ciò il modello del bachiano Clavicembalo ben temperato (raccolta in cui però le composizioni seguivano un ordine tonale differente).

Se la suggestione del Maestro di Eisenach è certamente importante, è però altrettanto vero che Chopin sviluppa le sue composizioni in totale autonomia dal modello, raggiungendo esiti inauditi fino al quel momento.
Il brano d’esordio della serie è assolutamente elettrizzante: una cascata di arpeggi che percorre in ogni direzione la tastiera regalandoci attimi di sublime poesia.  È una sorta di commovente apertura al mondo (apparentemente senza riserva alcuna) cui risponde l’accigliato ed impetuoso studio n. 4 in cui la fremente e inesausta melodia sembra gettare una luce sinistra sulla bellezza appena scoperta. 



Il gioco di alternanze prosegue con l’ilare studio n.5 (in cui la mano destra suona esclusivamente sui tasti neri del pianoforte) cui segue uno dei vertici dell’intera prima parte, l’elegiaco studio n. 6, vera riflessione sulla caducità delle cose umane e sull’impossibile rassegnazione al fatto che tutto sia destinato a scomparire.

Con lo studio n. 8 una nuova ventata di freschezza (con venature addirittura marziali alla mano sinistra) ci investe mentre il n. 9 è segnato da un continuo, tormentato anelito.

L’ennesimo Giano bifronte è rappresentato dagli ultimi due studi di questa prima serie che contrappongono gli aerei accordi arpeggiati del n. 11 al grido angosciato del n. 12 (scritto di getto, narra la leggenda, dopo aver appreso della caduta di Varsavia in mano russa).

 

In sostanza nell’op. 10 troviamo uno Chopin ardentemente appassionato al mondo (che proprio in quegli anni stava scoprendo, allontanandosi definitivamente dall’amatissima Polonia) e nel contempo acuto indagatore di ogni più intimo moto dell’animo (è lui stesso a definire il pianoforte suo “confessore”) alla ricerca di una verità espressiva assoluta.

Nella scia di queste esplorazioni si pone anche la successiva raccolta dell’op. 25 (pubblicata nel 1837) che fin dall’apertura  ci mostra un musicista per alcuni versi decisamente mutato. 

La dolcissima melodia del primo studio (sorretta da incantati arpeggi che, secondo la testimonianza di Schumann, l’autore eseguiva con tale leggerezza da dare l’impressione di suonare direttamente sulle corde) si piega, nella parte centrale della composizione, a contemplare dolorosamente una realtà in cui comincia a introdursi, come un tarlo, il sospetto di una sorta di inganno cosmico (è lo stesso Chopin che, scrivendo all’amico Titus, dichiara di sentirsi un “cembalo [parola che in polacco significa anche “stupido”] scordato” opera di un grande liutaio ormai scomparso) che consiste nell’essere gettati nel mondo con desideri di fatto inappagabili.

Il tono generalmente più cupo di questa seconda tranche di studi può dunque essere letta anche alla luce del problematico rapporto con la realtà.  Allora l’inquieto melodizzare del n. 2 e il mercuriale incedere del n. 5 appaiono come incarnazioni diverse ma convergenti di un disagio che va acuendosi. 

Il vertice della raccolta è, secondo noi, ravvisabile nello studio n. 6 (una delle opere predilette dallo stesso compositore) che, come un prisma, racchiude in sé tutte le aspirazioni, tutta la febbre di vita e tutta la disillusione che caratterizzano l’op. 25.

 

Ben otto dei dodici studi riuniti in questo secondo fascicolo sono in tonalità minore (nell’op.10 erano solo cinque) e questa insistenza sui toni cupi e melanconici sfocia nel trittico finale (studi nn. 10, 11 e 12) in cui il tormento pare addirittura trasformarsi in una devastante disperazione.
Se lo studio in Si minore (n.10) conosce un breve momento di riposo nella parte centrale, gli ultimi due brani rappresentano davvero un grido rivolto contro un cielo apparentemente vuoto.

Proprio nella sincera e violenta ribellione di queste pagine (testimonianza, se ancora ce ne fosse bisogno, di quanto sia falsa l’immagine di uno Chopin debole e femmineo) possiamo rintracciare (come in un negativo fotografico) l’aspetto umanamente interessante della raccolta.

Nel percorso ora osservato l’Autore ci pone dinnanzi dapprima la gioia della scoperta di un mondo che appare come un’unica, multiforme promessa e quindi la disperazione per quello che, leopardianamente, potremmo chiamare “apparir del vero”, ossia per la perdita delle illusioni della giovinezza.

Come nel poeta (spesso accostato al compositore polacco) così nel musicista questa sorta di lucida disperazione non genera rassegnazione ma una continua amarezza, un tedio profondo, un’insoddisfazione perpetua che, in fondo, è il segno più eloquente della vera statura dell’uomo, essere fatto per qualcosa di talmente grande da essere inimmaginabile (Leopardi lo definisce semplicemente “infinito”) che non può esimersi dalla diuturna domanda di un significato che abbracci tutta la vita in ogni suo aspetto ed in ogni circostanza.

Con il suo grido e la sua inquietudine Chopin ci ricorda che dobbiamo essere all’altezza di questa domanda per scoprire il nostro volto autentico e di questo, oltre che della immensa bellezza che ha saputo regalarci, non possiamo non essergli, ancora oggi, profondamente grati.