Il rock in Italia? Roba da Vasco e da Ligabue, un misto ben riuscito di trasgressione e retorica. Certo, per carità, ben suonato e potente, ma sempre con qualcosina che manca, quella cosa che potremmo chiamare romanticismo, speranza, tutte quelle cose che han fatto di dischi come “Born to Run”, tanto per dirne uno celebre, una bandiera di dignità umana. Ebbene, anche in Italia c’è qualcuno che fa musica sulla lunghezza d’onda di Springsteen, di Dylan e di Jackson Browne: è veneto è si chiama Massimo Priviero. Dopo anni di onorata professione musicale, Massimo si è concesso il lusso di una cosa nobile: un cd-live triplo, “Rolling Live”, raccolta (con due cd audio e un dvd) di un memorabile concerto tenuto lo scorso anno al Rolling Stone di Milano.



Con lui c’è una vecchia sintonia, una cutanea simpatia. Ci eravamo incontrati nel 1990 ai tempi dell’uscita del suo disco più bello, “Nessuna resa mai”, e da allora il filo dei discorsi non si è quasi mai interrotto. Lo riprendo per raccontare come si vive, anche in Italia, da musicista rock.

Massimo raccontaci un po’ più di te: da quanto tempo fai rock?



Da oltre 20 anni, non da poco. Ho iniziato con in testa un sogno, fondere ricerca poetica e musica, rock e cantautorato. In Italia sembra ci sia divisione tra questi due linguaggi, invece negli States questa separazione non c’è: Dylan è un rocker, come Springsteen, eppure riesce a esprimere tutto un mondo con una vena poetica indiscutibile. Quando da ragazzo ho scoperto questo modo di far musica, di vestire le canzoni d’energia e di metterle al servizio della mia vocalità, tra forme acustiche e forme elettriche, in quel momento ho deciso la mia strada. Il resto è venuto quasi naturalmente.



Domanda frivola: c’è un momento in cui “il rock ha cambiato la tua vita”?

Guarda ci sono stati tre momenti che mi hanno segnato da giovane. Il primo è stato l’ascolto di Bob Dylan. Un amico mi aveva regalato il triplo ellepì del “Concert for Bangladesh” organizzato da George Harrison. Iniziai ad ascoltarlo e rimasi di sasso proprio per la parte in cui Dylan interpreta le sue canzoni: lì mi si è accesa la luce per la prima volta. Un altro momento fu quando sentii per la prima volta “Born to Run”, nello sgabuzzino di una radio libera con cui collaboravo: altra scossa per l’energia che comunicava e che fino a quel momento mi mancava. Ultima puntata a Parigi, nel ’78, quando vidi al cinema “L’ultimo valzer”, il film di Martin Scorsese sulla Band di Robbie Robertson. Lì decisi che avrei fatto del rock’n’roll la mia vita.

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Questo Live è il tuo undicesimo disco: senti di aver afferrato un qualche tipo di successo?

Il vero successo è vivere di musica. Se riesci a trasformare la passione e il talento in un mestiere, allora hai vinto. A mio parere non è la quantità di successo a pesare o contare….

Non ti pesa, quindi, non avere un nome da stadio?

Ho inciso un bel po’ di dischi, faccio una quarantina di date all’anno, ho un certo seguito in Germania e Austria… direi che sono soddisfatto così!

Quale è il senso vero del tuo rock? Cosa cerchi di dire?

Che io scriva canzoni d’amore o di avventura, di desiderio o di disperazione, c’è un’idea di umana resistenza che domina tutto quel che incido…

Non a caso la tua canzone più famosa si intitola Nessuna resa mai

E’ la mia visione più profonda, quella della resistenza umana, della difesa di certi valori. E’ anche l’affermazione di quel bisogno essenziale di Dio che sento sempre più forte. Se sono andato avanti in questi anni è anche per questa sete spirituale, questo mio legame con i gospel. E’ una fede magari incerta, ma costante.

 

Rock e fede? Davvero ci trovi un nesso?

La musica per sua natura è racconto di salvezza e di dannazione. Ma è solo il bisogno totale di altro, di ciò che trascende, ciò che amplifica per mille il valore di quello che facciamo. Dylan, Cohen, Van Morrison e Springsteen da decenni dicono questa cosa, cantano del bisogno di fede, del fatto di non bastarsi. Lo percepisci anche quando sei sul palco imbracciando una chitarra di fronte al pubblico? Quando la gente viene ai concerti e ti guarda in un certo modo, capisci che ha un desiderio che non finisce in quel concerto. C’è qualcosa di infinitamente più grande in quel che cercano. Lo vedo e lo sento. Quel che posso fare io è dare qualcosa di me, creare una condivisione di questo desiderio…

E ora cosa hai in programma?

Tante serate questa estate, ma prima di ogni altra cosa sarò al raduno nazionale degli Alpini, a Bergamo il 1 maggio. Farò loro compagnia con uno spettacolo che si intitola dall’Adige al Don, un misto di canzoni tradizionali, di ballate degli alpini e di miei pezzi.

E interpreti una delle canzoni più belle che sia mai stata scritta da un italiano, La strada del Davai, racconto struggente di un soldato-contadino nel bel mezzo della ritirata di Russia…

Ovvio. E anche il Testamento del capitano, una cosa di fronte alla quale nessuna persona dotata di cuore può rimanere indifferente.

Un’ultima cosa, Massimo: questo doppio live è l’antologia delle tue cose migliori: cosa credi di aver dato alla musica italiana?

Una cosa sola: rock e poesia.

 

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