57esima edizione del Concorso Pianistico Internazionale “Ferruccio Busoni”, duecento candidati giunti alle selezioni finali, ventisette finalisti di tredici nazioni, premi in denaro al vincitore, tournée in America Latina e Europa, una carriera garantita. I concorrenti si sono affrontati su sedici magnifici strumenti a coda, targati Passadori.



Quest’anno il divo Lang Lang, al concerto nell’Arena di Verona, ha voluto un loro modello Gran Coda. Nel negozio in centro a Brescia, sono esposti molti autografi di grandi della tastiera: da Nikita Magaloff fino a un certo “Elton John”. Dal principiante al professionista, tutti paiono costretti a farci i conti. Più che oligarchia sembra monopolio. Chi li sfida, in breve scompare. Qualche concorrente è spuntato, presto ha fatto la fine della neve al sole.



Le radici del loro impero affondano nell’Ottocento. L’iniziatore, Giuseppe Passadori, classe 1893, prende lezioni dall’organista Guglielmo Borghetti (già costruttore di tastiere). Scale e arpeggi durano poco: Giuseppe toglie le mani dalla tastiera e inizia a ficcarle dentro lo strumento. Non smetterà più. Restauro, commercio, l’aiuto dei figli (Piero, Enzo, Angelo), una schiera di discendenti. In ditta sbarca anche Werther Bettini, mitico accordatore che Arturo Benedetti Michelangeli vorrà sempre con sé. La nave è partita.

I Passadori diventano esclusivisti degli Steinway & Sons (la “Ferrari dei pianoforti”) in numerose province del Nord Italia e forniscono strumenti a varie stagioni concertistiche (naturalmente al Teatro Grande). La storia s’infittisce. I primi viaggi in Piemonte (culla italiana delle mini fabbriche “pianofortaie”), la concorrenza orientale (Yamaha, Kawai) che costringe molti alla resa, i prezzi politici della Germania dell’Est, le oltre duecento corde accordate senza l’ausilio di alcun frequenzimetro; e poi pesi, spinte, tensioni, pettinatine ai feltri, millimetriche regolazioni ai pedali, infinitesimali grammature dei tasti, la difficile personalità di alcune marche, l’apparente facilità di altre, il “bestione” Bösendorfer, l’uguaglianza dei registri, il rivale Fazioli. Un fiume di musica: noleggiata, venduta, trasportata, raccontata.



 

Un capitolo a parte spetta a Arturo Benedetti Michelangeli. “Era davvero incontentabile”, conferma Piero Passadori. “Io curavo la meccanica, Bettini l’accordatura. Ricevevamo ordini quasi irrealizzabili. Più di una volta, a pochi minuti dall’esibizione, con il pubblico che già rumoreggiava, ci trovavamo ancora lì a trafficare con martelletti, bilanciamenti, pinzature, registrazione degli scappamenti. Il maestro aveva sempre il sospetto di essere spiato. Una volta avvertì uno scricchiolio nel teatro vuoto e minacciò di andarsene. Abbiamo trascorso più di una notte in bianco per soddisfare le sue impossibili richieste, che riguardavano accordature con speciali battimenti, o particolari regolazioni dello scatto per avere la tastiera più agile possibile. Verso l’alba usciva a fumare l’ennesima sigaretta e noi ci addormentavamo sfiniti sul coperchio dello strumento. Quando però iniziava a suonare, quel pianoforte che fino a un istante prima avevamo tormentato diventava irriconoscibile e le nostre fatiche erano ripagate”.

Confermata l’irascibilità di Michelangeli. “In occasione di un recital da tenersi al Grande, il suo coda personale, di ritorno dal Giappone, risultò completamente inservibile: era caduto durante il trasporto e il telaio di ghisa si era rotto. Tutti erano ammutoliti, Orizio sudava freddo. Come dirglielo? Come avrebbe reagito? In pochi giorni abbiamo setacciato la Lombardia alla ricerca di un piano che potesse andargli a genio. Trovato e mostrato un esemplare che ci sembrava adatto, ricevemmo un silenzio-assenso.

Un’altra volta, l’accordatore Tallone fu abbandonato di notte in autostrada perché si era permesso di dirgli: “Maestro, rallenti un po’…”. Ma non ci sono strumenti magnifici, all’inizio della sua carriera: suonava un vecchio Anelli, modello 30. Oggi faticheremmo a venderlo…”.