Fu colpa dell’esoso fisco inglese o della troppa droga? Probabilmente di nessuna delle due cose, che furono però congiunture astrali che portarono a facilitare, come succede sempre nelle storie migliori, in modo misterioso, spontaneo e non pianificato uno dei più grandi dischi della storia del rock.
“Exile on Main Street”, esilio sulla strada principale (in uscita il 18 maggio in ristampa speciale) è un momento unico nella storia della “più grande rock’n’roll band del mondo”, The Rolling Stones.
Pubblicato come doppio vinile (sarà un caso che i dischi migliori della storia del rock siano quasi tutti dei doppi? Da “Blonde on Blonde” di Bob Dylan al “White Album” dei Beatles, passando per “London Calling” dei Clash, è senz’altro un dato di fatto che si tratta tutti di doppi vinili) il 26 maggio del 1972, è un flash, uno sguardo nel privato, una sorta di porta che spalanca dimensioni spazio/tempo incontrollabili. Sono gli Stones, questi che suonano, o qualche vecchio bluesman che ha appena venduto l’anima al diavolo?
Di fatto, mai prima di allora, benché ci avessero provato in tantissimi, si potè assistere a identificazione più perfetta e trascendentale tra un gruppo di ragazzi inglesi di estrazione borghese e un mondo lontanissimo da quello in cui erano cresciuti e vissuti fino ad allora, e cioè il sud degli States, quello fatto di piantagioni di cotone e delle sponde del fiume Mississippi. Anni luce dalle strade della Swinging London. Ma fu una identificazione totale, sbalorditiva.
Come ha detto qualcuno, i migliori dischi rock sono stati fatti da ragazzi inglesi che sognavano di essere americani immaginari. “Exile on Main Street” è sicuramente uno di questi. All’inizio degli anni Settanta i Rolling Stones si trovavano bersagliati da richieste di tasse così elevate che pensarono bene di spostare la loro regale residenza nella più abbordabile Francia.
Non che si accontentarono di un monolocale in periferia. Scelsero piuttosto una gigantesca e bellissima villa nella zona più esclusiva del paese, cioè la Costa Azzurra, a Villefranche-sur-Mer vicino a Nizza. Villa Nellcote era stata durante la Seconda guerra mondiale sede del locale distaccamento della Gestapo. Si diceva che negli scantinati fossero stati commessi efferati delitti su appartenenti alla resistenza francese. Quale luogo migliore per un gruppo che aveva dichiarato “simpatia per il diavolo”?
In realtà, in quella bella villa c’era andato Keith Richards da qualche tempo con moglie e figlioletto a godersi delle vacanze. Ma siccome ai tempi il chitarrista non godeva di una grande privacy, nella villa erano giunti uno dopo l’altro amici, groupie, altri musicisti. E ovviamente tanta droga: Keith Richards in quel periodo era ai massimi livelli in quanto a uso di eroina.
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Tra questi personaggi era arrivato direttamente da Los Angeles anche Gram Parsons, straordinario musicista e autore, membro di band gloriose come Byrds e Flying Burrito Brothers. Profondissimo conoscitore della tradizione country del suo paese, aveva fatto innamorare Richards di quella musica. In cambio ne aveva avuto una scimmia sulla spalla che nel giro di un anno lo avrebbe portato alla morte per overdose. Tantè. Il country della profonda America si sente benissimo nei solchi di “Exile”, ad esempio nella straordinaria ballata acustica Sweet Virginia. Poi giunsero anche gli altri Stones, Mick Jagger, Mick Taylor, Bill Wyman e Charlie Watts. A volte tutti, altre uno o due per volta. Di giorno si dormiva, si andava in motoscafo, ci si drogava e divertiva con le ragazze. Di notte, sorta di vampiri del rock’n’roll, sfidando le ombre delle guardie della Gestapo e altri fantasmi, scendevano in cantina, attaccavano le chitarre e cominciavano a improvvisare.
Ne sarebbe uscita musica evocativa, fatta di riff sgangherati e di voci ai limiti dell’ossessione, della passione e anche del divertimento. Keith Richards addirittura avrebbe fatto in un pezzo il cantante solista, e quel pezzo sarebbe diventato al pari di Satisfaction il suo marchio di fabbrica. Per il riff bruciante di chitarra ma anche per il titolo: Happy. Felice, di fare musica. Il disco si apriva con un cavalcata irresistibile, un rock con tanto di fiati sgargianti a dettarne il ritmo, Rocks Off. Poi ne arrivava un’altra con un pianoforte honky tonk e ancora i fiati a far saltare tutti i tavoli da gioco dei casino della Costa Azzurra, Rip This Joint. Un pezzo che oggi "spacca" ancora, e più di tanti pretendenti al trono del rock che spuntano ogni giorno. Il tris iniziale si concludeva con John Lee Hooker e il suo ritmo ipnotico nel cuore, Shake Your Hips. Ce ne sarebbe stato abbastanza per far gridare al miracolo, ma la storia raccontata da “Exile” era appena cominciata.
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Bisognava visitare altre parti degli Stati Uniti, raccontare altre visioni, incubi, speranze, promesse infrante. Altri fantasmi da evocare. Ad esempio quella di Angela Davis, la bellissima comunista amica dei terroristi delle Pantere Nere, simbolo stesso di quell’epoca di passaggio tra le grandi utopie infrante dei sixties e la rabbia delle P38. Sweet Black Angel è Mick Jagger che per una volta non canta solo di sesso, ma si lascia prendere dal sentimento soul. A un certo punto gli Stones si ricordano ancora di essere gli Stones, e confezionano l’unico brano che potrebbe essere un hit singles piacione, Tumbling Dice. Ma è difficile resistere al richiamo, e allora ci si torna a perdere in qualche lurido juke joint della Louisiana, con Ventilator Blues, un blues devastante e devastato.
Del country scintillante e malinconico di Sweet Virginia si è già detto, altra pagina e altro cuore del sud degli States. C’è tempo ancora per il sabba voodoo di I Just Want to See His Face, una cantilena che sa di gospel ubriaco. E per la bellissima Shine a Light. Alla fine del viaggio, si esce dalla tetra cantina e si accende una luce, shine a light. Ballata pianistica piena di tenerezza e sentimento gospel, Shine a Light è uno dei capolavori del rock degli anni Settanta. E perciò di sempre. “Exile on Main Street” è stato oggi remasterizzato per l’occasione, i suoni ripuliti, ma non perde un grammo della sua forza e delle sue paure antiche. Ad esso viene aggiunto un cd di dieci brani registrati un po’ in quelle session, un po’ a Los Angeles.
Quello che rese “Exile On Main Stret” un disco da paura, bellissimo nella sua caotica improvvisazione, furono le musiche e il modo in cui furono registrate. Nella cantina di Nellcote infatti non c’erano le attrezzature tecnologiche degli studi inglesi o americani. Il sound del disco originale era avvolto nella nebbia, nel fango, nelle ombre. Infatti a Mick Jagger questo disco non piacque mai.
Ad esso viene affiancato in questa nuova edizione un cd con dieci tracce inedite risalenti tutte più o meno a quelle session (alcune sicuramente provengono dalle sedute conclusive effettuate a Los Angeles). Dieci pezzi che non cambiano di una virgola il giudizio sul disco originale, ma che fa comunque piacere sentire. Viene pubblicata anche una superdeluxe edition, con i due cd, quello originale e quello di inediti, due vinili e un dvd contenente il makog of di “Exile” e clip dai film “Ladies & Gentlemen: The Rolling Stones” e l’inedito “Cocksucker Blues”; nella lussuosa confezione è incluso un libro di 52 pagine con copertina rigida, rilegato in brossura, e alcune cartoline da collezione.
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Ci sarà poi presto un dvd a parte, “Stones in Exile”, la cui data di pubblicazione non è al momento ancora stata confermata, include filmati rari e inediti, foto, interviste e semplici ma interessantissime conversazioni con la band. Prodotto da John Battsek e diretto da Stephen Kijakm “Stones in Exile” mostra i Rolling Stones proprio nel periodo in cui stavano creando uno dei più grandi album di tutti i tempi.
Infine esce in questi giorni in Italia anche un libro, “Exile on Main Street”, scritto dal giornalista americano Bill Janovitz che analizza le tecniche di registrazione e i testi delle canzoni, racconta gli aneddoti e la genesi dell’album che ha influenzato generazioni di musicisti. Viene pubblicato da Il Saggiatore (204 pagine, 14 euro).