Nada Malanima, cantante, attrice, cantautrice e anche scrittrice. Uscirà ad ottobre il suo nuovo disco, al quale ha lavorato tanto e intensamente sempre sostenuta dal compagno che lei cita e ringrazia ogni volta che può (Gerry Manzoli, bassista dei Cameleonti dal ’63 all’82, vivono in Maremma, in un casolare bellissimo, isolato e con un panorama meraviglioso).



È interessante poter incontrare un’artista così poliedrica in un posto un po’ decentrato, in provincia, accompagnarla dopo un incontro a prendere un gelato, vedere una mostra, farle una intervista sui gradini del centro a Rimini e poi riaccompagnarla in albergo per ordinare una camomilla (che però non c’è e di fronte a un barista che non sa cos’è un canarino opta per un orzo in tazza grande senza zucchero).



Verrebbe da chiederle tantissime cose, ma è così ammaliante la sua voce dolce e ruvida (sarà l’antico toscano che non molla mai) che ci si limita a poche domande e la si lascia parlare, anche a ruota libera all’una di notte, pur di ascoltarla anche a rischio di non poter riportare poi quasi nulla in un articolo. Troppo intimo perché Nada è molto schietta e genuina. Piena di gioia e voglia di vivere, con un sorriso dolcissimo.

Nella superaffollata saletta della Cineteca Comunale di Rimini, Nada si racconta, presenta il documentario di una giovane regista palermitana, Costanza Quatriglio, il cui titolo riprende l’ultimo libro autobiografico dell’artista “Il mio cuore umano” di cui la stessa Nada e l’amico Massimiliano Massimo Zamboni (chitarrista storico dei CCCP, poi CSI) leggono al pubblico alcuni brani, alternandoli a brani tratti dall’altro libro di Nada “Le mie madri”.



C’è un momento in cui sullo schermo appare Nada ventenne che guarda il video di Nada appena quindicenne, e io seduto per terra la guardo in sala che osserva sé stessa con grande tenerezza. Fa un certo effetto. Tre Nada diverse contemporaneamente.

 

Il documentario è forte e non mancano momenti di vera commozione, anche di dolore, quel dolore di cui trasuda il suo disco “Tutto l’amore che mi manca” (miglior album indipendente 2004, prodotto da John Parish, già produttore di PJ Harvey) con cui mi sono preparato a intervistarla. Atmosfere newyorkesi che ricordano tanto Lou Reed, voce che lavora sulle note più basse e fa venire i brividi.

In un mondo in cui tutti cercano di fuggire il dolore, di censurarlo, di far finta che non ci sia, tu lo canti spesso, in maniera dura e diretta.

Il dolore è una forma d’amore, che ci fa apprezzare di più le cose, che ci fa avvicinare alle cose.

Si ma tu lo canti in maniera quasi violenta, come un pugno nello stomaco.

Mi viene naturale, fa parte del mio sentire, di quello che vedo intorno a me, anche nel prossimo disco sarà così. Ma poi non è mai negativo, non è un dolore che fa male e basta, anzi tenta di risolvere, di scoprire. È positivo in questo senso.

Nel documentario a un certo punto dici “Vorrei ricominciare tutto da capo”. Paradossale, hai vissuto tantissimi cambiamenti artistici, eppure se uno riguarda il video di quel primo Sanremo sembra che in quella canzone Nada ci fosse già tutta.

Io non riesco a vederla così, per me è difficile vedermi e giudicarmi, mi sembra di parlare di un’altra persona perché ero troppo piccola, ho vissuto tutto con incoscienza. Quello che avverto vedendo il film è che ho un sentimento che sento, che risento, che ho vissuto: una forma di difesa da un mondo che mi voleva in qualche maniera prendere, incasellare. Quindi io mi sono sempre difesa. Però ero forte anche nella mia incoscienza, nella mia inconsapevolezza ero comunque determinata.

Come nasce la musica di Nada?

La musica viene da se, non ha bisogno di troppe sovrastrutture, troppi ragionamenti.
Dalla prima canzone al disco prodotto da Don Parish è passata veramente una vita, io lo so bene. Una fatica, ma io sono abituata alle fatiche, mi piace faticare. Ho capito che io se non fatico non sono contenta. È un po’ il mio destino.

Dolore, fatica, e nessuna paura di affrontarli. La figlia di una vera “donna comunista”, che cantava nel coro della chiesa ma che poi non ci ha messo più piede da fedele cattolica, negli ultimi anni della vita di sua madre, vita segnata da una tremenda depressione, come forma di dialogo usava gli inni alla vergine (nel video canta a sua madre e poi ad un concerto “Dell’aurora Tu sorgi più bella”) cari alla madre e che lei ha anche ripreso in un progetto di musica sacra. Qual è il tuo rapporto con la religione?

 
 

Io non sono religiosa, o meglio, non sono cattolica, ma sono molto religiosa. Sento il vuoto, il silenzio. Ho bisogno degli spazi, ho bisogno del raccoglimento, queste cose della religione le vivo a modo mio.
Quando entro in una chiesa sto bene anche se non credo a tutto il contorno. È uno spazio mistico, uno spazio in cui ti senti piccolo, dove tutti siamo uguali. Ti senti abbracciata. Mi piace.

Nada non ha accettato le strade preconfezionate che la canzone italiana offriva a una vincitrice di Sanremo, Nada ha fatto la sua strada, scrivendo testi e musica delle sue canzoni. Ci racconti questa strada?

È un po’ difficile raccontarsi così, perché le cose succedono senza che uno abbia fatto dei piani o dei programmi. Io devo dire che a un certo punto mi sono trovata a fare delle cose quasi per rompere degli schemi che si erano creati intorno a me e che non mi piacevano. Proprio perché avendo cominciato così da ragazzina, e quindi essendo stata per forza di cose un po’ manipolata (anche se forse è una parola un po’ forte), forse costruita da altri, questo è un po’ quello che succedeva. Quando ho preso un po’ coscienza mi sono trovata delle cose intorno che non mi rappresentavano, che non erano come io veramente ero, come io volevo veramente essere.

Come hai reagito? Come hai cominciato a essere te stessa?

Ho cominciato a fare delle scelte anche proprio per rompere queste cose. Quasi a farmi male, artisticamente parlando, andavo comunque contro quella che era la regola delle cose, istintivamente, perché sono molto istintiva, proprio per liberarmi, perché non volevo essere costretta a essere sempre lì con quella canzone, meravigliosa (Ma che freddo fa, Sanremo 1969), non volevo rimanere legata solo a quella cosa. Io volevo essere me stessa ogni volta che andavo avanti. Ancora adesso ogni volta che faccio un disco o faccio un progetto per me è come se fosse la prima volta, ho la curiosità, la paura, l’emozione, anche l’insicurezza, sono tanti anni che faccio questo lavoro, ma non sono come altri che si portano dietro il peso, l’importanza di quello che hanno fatto, tutte le varie tappe che hanno raggiunto. Io non ce l’ho questo.

Al contrario di altri colleghi che invece hanno un bisogno esagerato di autocelebrarsi, di collezionare riconoscimenti.
Per me ogni cosa è fatta, è passata e vado avanti, mi sembra tutto nuovo, tutto diverso, tutto da scoprire, da raggiungere e da raccontare, è così naturale. Quindi a un certo punto io ho seguito questo mio modo di sentire al di là delle regole e delle convenzioni, di quello che mi suggerivano gli altri. Devo dire che mi dicevo sempre “Ma perché devo fare quello che dice lui? Ma sono io, forse è meglio se faccio quello che dico io.” Mi suggerivano “Perché non vai là e non canti quella canzone?” e io mi interrogavo “Ma a me non piace. Forse è meglio che io canti quello che piace a me, perché devo cantare quello che piace a lui?”

Così hai seguito il tuo istinto lasciando ad altri i buoni consigli?

 
 

Così sono andata avanti, ma non c’è stato un disegno, l’unica cosa che sentivo era una ribellione verso quello a cui altri volevano costringermi, secondo un meccanismo, ridurmi a qualcosa, anche di bello, che era successo e che per altri poteva essere qualcosa di importante. Io volevo andare avanti, volevo liberarmi… E non è che è finito. Ad ottobre uscirà il disco nuovo, ci sto lavorando da due anni, è così bello tutto quello che succederà, non so niente di quello che accadrà, non ho certezze, non ho sicurezze, non mi importa niente di quello che ho fatto, io sono così.

Cosa ha significato l’incontro con Piero Ciampi?

È stato un incontro fantastico. Non poteva capitarmi di meglio. È successo quando avevo 18 anni, volevo fare altro, volevo buttare all’aria tutto, come poi ho fatto. E nessuno mi capiva. Ho incontrato Piero Ciampi e lui mi disse “Ci penso io sorellina”.
Con lui ho vissuto un momento bellissimo perché mi sentivo appoggiata da una persona che ragionava, che mi capiva, che mi voleva aiutare. Lui era veramente un poeta, una persona che viveva una vita… non credo che noi viviamo come viveva lui, non saremmo qui, non avremmo gli impegni che abbiamo, lui era disfatto dalla vita perché la prendeva tutta senza barriere, senza risparmiarsi, senza ragionamenti.

Una grande sensibilità?

Lui sentiva il dolore, sentiva l’affanno, sentiva la difficoltà delle persone di vivere insieme, di capirsi, di parlarsi liberamente, di conoscersi, lui si scontrava con tutto questo e questo lo rendeva una persona speciale. Solo dopo la sua morte ho cominciato a scrivere le mie canzoni, perché ho capito che dopo di lui non avrei potuto più cantare niente. Ho cominciato a scrivere e poi man mano che ho fatto un lavoro su di me mi sono accorta che in qualche modo un po’ di lui c’è anche nel mio esprimermi, involontariamente.

Parla anche di Sanremo Nada che proprio da li è partita.

Gli ultimi anni in cui sono andata a Sanremo è stata proprio una mia scelta, sono andata convinta di andarci, perché mi sembrava uno spazio giusto per far vedere ad una platea un po’ più vasta quello che stavo facendo in quel momento. Sono sempre andata con delle canzoni che tutti mi sconsigliavano. Invece per me erano quelle che più mi rappresentavano e mi davano la possibilità di dire a tutti: “Ecco questo è quello che sto facendo”.

Non vedo l’ora di sentirlo questo disco nuovo, anche se dovrò pazientare fino ad ottobre. Vale la pena fare la fatica di incidere le proprie idee nel panorama discografico italiano di oggi?

Magari non ne vendi di dischi, ma prima che il disco esca penso sempre in positivo, penso che venderà milioni. Io parto sempre con grandi speranze, date dal fatto che penso che quello che sto facendo è una cosa che ha un senso. Poi, strada facendo, so che ci saranno problemi, ma quando sei all’inizio del lavoro non ci pensi alle difficoltà, vai. Altrimenti se uno pensasse a tutte le difficoltà che ci sono nella vita non farebbe nulla. Adesso? Devo fare un figlio? Di questi tempi? Però uno li deve fare. Secondo me i problemi vengono dopo, all’inizio si va.

(A cura di Martino Chieffo)