Francesco Guccini oggi compie 70 anni. In occasione del suo compleanno Massimo Bernardini ha raggiunto per IlSussidiario.net il cantautore e scrittore modenese. Una lunga e amichevole chiaccherata sul tempo che se ne va e gli amici che ci attendono in un posto lontano, le canzoni più belle, Pavana, Modena e Bologna e quel gusto per la vita che rimane, oltre il tempo.
Caro Maestro, è ufficiale: lunedì 14 giugno sono 70 anni. Buon compleanno!
Molte grazie. Ma sono sopraffatto dalla gente, qui in casa a Pavana, e oggi e domani sarò vittima…
…di feste, appunto: e sei il festeggiato!
Meglio essere dimenticato…
Onestamente mi sembra impossibile. 70 anni di Francesco Guccini: mi fa una certa impressione.
A me invece sembra tragicamente possibile, essendo io nato nella prima metà del secolo scorso. E quindi in un altro millennio, e ciò non depone a mio favore…
La consideri una sgradevole scocciatura?
Assolutamente sì. Volevo passare del tutto inosservato. Giovedì purtroppo ero a mangiare con della gente e ho visto che Mollica mi ha festeggiato al TG1. Mi sono vergognato come una bestia. Pensavo di passare sotto silenzio invece purtroppo non è così…
Ho fatto il calcolo: ormai sei al 50% nel rapporto fra libri e dischi…
Nooo….
Parlo di materiale nuovo, originale. I dischi di materiale nuovo e i libri stanno ormai a 16-17 contro 8. Sei arrivato coi libri quasi alla metà della tua produzione di canzoni.
Da grande volevo fare lo scrittore non il cantautore, non sapevo neanche cos’era… (ride)
Appunto, mi pare un bell’obiettivo raggiunto, essere al 50% scrittore…
Beh, insomma…
Ti sei tolto tutte le ambizioni creative o ti manca qualcosa?
No, non lo so. Uno si adagia anche nel non fare, a una certa età. Vorrei anche andare in pensione prima o poi, ma tante cose me lo impediscono.
Per dire: nel tuo futuro potrebbe esserci il cinema, la musica sinfonica o altri obiettivi sportivi…
Sportivi sì, correre i 100 metri è una mia ambizione grandissima.
Si sa che dopo i 70 sono questi gli obiettivi…
Senza scherzi: scriverò ancora libri e canzoni, penso, finché duro, ma non ho idea. Neanche da più giovane avevo ambizione di raggiungere grandi mete. Non avevo l’ambizione di fare il cantautore, solo lo scrittore mi sarebbe piaciuto. Poi più o meno ci sono riuscito, ma non è che se “non vivo se non faccio”. Vivevo divertendomi, più allora forse che adesso, comunque è così…
Ti provoco un po’: e la carriera politica? Sai che a una certa età in Italia si può diventare senatori a vita.
(Ride) Ognuno faccia il suo mestiere. Io non sono assolutamente adatto, né in piccolo né in grande, alla carriera politica. Ho avuto queste due nomination, chiamiamole così, quando è stato eletto il Presidente della Repubblica. Una è apparsa ufficialmente, l’altra no. Peccato – me l’ha spiegato Prodi -, perché con due si veniva nominati nell’albo… non so quale… l’albo d’oro della presidenza?!. Con una sola invece sparisci. Non ci ho mai creduto, ma sarebbe stato divertente.
Ma tu non sei convinto che possa succedere che un bel giorno qualcuno si alzi dai banchi per proporre Guccini senatore a vita?
Spero proprio che non succeda. E poi si può anche rifiutare, no? Per l’amor di Dio… C’è molta gente che lo merita molto e molto più di me.
E il tuo concerto di Modena del 30 giugno che tutti annunciano come una data storica?
È un clamoroso equivoco, io penso spinto da quelli di Modena, non ce n’è bisogno secondo me. È un concerto normalissimo e viene spacciato come “l’ultimo dei miei concerti” o la “festa del compleanno” che non è vero perché è già passato da 16 giorni. Sono terrorizzato da questa cosa. Non c’è niente di così speciale o travolgente… ma per l’amor di Dio! Sono sopraffatto un po’ da queste cose che avvengono mio malgrado.
Fra l’altro tu in realtà Modena l’hai tradita da quel dì, come da anni hai fatto anche con Bologna.
Tradita è una parola grossa. Sono andato a cercarmi altre plaghe. Modena l’ho abbandonata nel ’60, ci sono stato 15 della mia vita. Preceduti dai primi 5 passati a Pavana, poi 15 a Modena, sempre con la presenza di Pavana d’estate, a Natale, Pasqua, appena potevo.
Per fare un po’ d’ordine, tu ufficialmente sei residente a Pavana da quando?
No, io sono residente a Bologna, come residenza ufficiale.
Non dico in termini ufficiali, in termini reali, quotidiani.
Sono a Pavana… quant’è? Mi sembra 10 anni. Sì, 10 anni.
Facevo un po’ di conti. Sono passati 25 anni da quel libro che feci con te su di te, per l’editore Muzio, su indicazione di Riccardo Bertoncelli. Ti ricordi?
Viene citato continuamente, lo sai? Nelle successive biografie.
Ormai è da aggiornare, ma certo fu il primo lavoro un po’ organico su di te. Eravamo a metà degli anni Ottanta: ce n’era tanta ancora di storia tua…
…da macinare.
Però sono andato a rileggermi alcuni passaggi che, letti oggi, sono interessanti. Una prima cosa non l’ho letta, ma l’ho vista. C’è una fotografia in cui sei vestito da giudice o da avvocato, in toga…
In toga sì…
Ai tuoi piedi, seduto in un cantuccio, c’è Renzo Fantini, manager tuo e di Paolo Conte, che se n’è andato a 63 anni, a marzo, improvvisamente. Una morte inaspettata, per un tumore fulminante…
È stato un grandissimo dolore… che perdura. Quasi inaspettato. Quando gli hanno diagnosticato il tumore noi sapevamo che non sarebbe durato molto. Lui sapeva che era un tumore, ma non che fosse così…
Incalzante?
Sì. E anche noi, che lo sapevamo, in cuor nostro speravamo. Sai… si spera sempre. Invece in due mesi se n’è andato. Un dolore che forse non ho ancora completamente accettato. Permane, sai, a livello inconscio, al di là della professione e del lavoro. Eravamo amici, ottimi amici, amici al di là della professione. E poi, era una persona onesta in un mondo in cui le persone oneste non sono moltissime.
Ti manca Renzo? Continua a mancarti?
Eh, moltissimo, anzi delle volte mi viene spontaneo dire “Sento Renzo” per questa cosa. Quelle frazioni di secondo, come se ci fosse in qualche modo ancora. Poi invece so benissimo che non c’è. Per me la sua presenza era una sicurezza. Diceva una cosa, chiedeva la mia opinione poi diceva “farei così, farei cosà” e molto spesso lo ascoltavo.
Ma hai trovato qualcun altro con cui continuare a confrontarti?
Mio Dio, sì. L’ufficio va avanti. I figli di Fantini si sono messi dentro. C’è Rita, c’è mia figlia che è entrata anche lei… Ma sai, Fantini era Fantini.
Pensando alla morte di Fantini mi sono venute in mente due tue canzoni. Un verso di "Ho ancora la forza”: Far la conta degli amici andati e dire “ci vediamo più tardi”…
Sì, purtroppo ho fatto anche quella canzone per la morte di un altro amico, il disegnatore Bonvi (autore di “Sturmtruppen”-ndr). Se arrivi a una certa età quelli che sono andati sono tanti. Devi fare i conti anche con questo, con queste cose. A 70 anni purtroppo succede. Adesso vediamo, cerchiamo di tirare avanti e buona notte.
Mi è venuta alla mente anche “Gli amici”, che in realtà riesce a volgere questo dolore in battute fantastiche…
Certamente… non so se hai conosciuto Pigi, di Dolceacqua.
Certo, uno degli amici storici del Club Tenco di Sanremo.
Ecco, ne “Gli amici” c’è sempre questa speranza, potrei dire goliardica, di questo al di là pacioso e divertente.
Mi viene in mente il verso finale, in cui rivolgendoti a Dio dici: “E quindi ci sopporti, ci lasci ai nostri giochi, cosa che a questo mondo han fatto in pochi. Voglio vedere chi sceglie con tanti pretendenti, fra santi tristi e noi più divertenti. (Voglio) Veder chi è assunto in cielo, pur con mille ragioni, fra noi e la massa dei rompicoglioni”. Il Padreterno che deve scegliere fra voi che siete magari matti, ma simpatici, piuttosto che i “santi tristi” e i “ rompicoglioni”…
È un po’ il Padre Eterno de “La Genesi” in Opera Buffa, questa figura burbera da vecchio padre un po’ incazzato, ma benevolo.
Io, sai, sono convinto che prima o poi – spero fra 30, 50 anni – quando incontrerai Renzo andrà così, come nella canzone.
Speriamo che ci sia un tavolo di carte e una bottiglia di vino o qualcosa di simile. È un Paradiso poi da poco. Non sogno mica le hûrî, le 70 vergini del paradiso islamico. Mi accontenterei di molto meno. Dell’amicizia.
Un’altra cosa ho trovato in quel nostro libro, una profezia su Pavana. A un certo punto – stiamo parlando di conversazioni dell’85-’86 – ti chiedo: “Magari immagini già la tua vecchiaia con il ritorno a Pavana?” E tu rispondi: “Sì, magari a costo di andarci da solo. Vorrei finire a Pavana i miei giorni, sempre che la salute non mi crei in vecchiaia problemi insormontabili”. Direi che 25 anni dopo l’obiettivo è raggiunto.
L’obiettivo era quello insomma. Come il marinaio gira il mondo e torna da dove era partito, il montanaro grossomodo viaggia, guarda e torna lì da dove è partito. Più che nei progetti era nel destino, nel Dna tutto sommato.
Però per un uomo del tuo secolo in questo sei anomalo, lo eri allora e lo sei ancora adesso…
La mia origine è questa qua: Pavana, nell’Appennino fra Emilia e Toscana. L’ho sempre detto: se guardi la congerie dei cantautori di allora e di adesso, io sono l’unico che non viene dalla città. A volte mi chiedono “cosa fai lassù?” Io dico “niente”, ma non è vero, ho mille cose da fare. Loro si immaginano che uno senza città non riesca a vivere. Non vivo sul cucuzzolo d’un monte, vivo in una civiltà che è diversa, ma vivace.
Quello che mi colpisce, però, è che tu non sei il provinciale che ha vissuto la sua adolescenza, e prima l’infanzia, lontano dalla città. In fondo a Pavana ci sei capitato per caso e per pochi anni, perché c’era la guerra, lo sfollamento e tuo padre, impiegato delle poste di Modena, non sarebbe tornato dalla prigionia fino al ’46.
Un momento, sono venuto in Pavana che ero talmente piccolo che mi è sempre sembrato di essere nato qui. I primi cinque, sei anni nella vita di una persona sono importantissimi. Si impara a parlare, a camminare, a mangiare…
Stai rovesciando la mia prospettiva completamente…
Eh sì. Per me lasciare Pavana per la città è stato un dolore. Poi mi sono adattato.
Sì, ma parliamo del dolore di un bambino di 6 anni, in parte inconsapevole…
Non si possono avere grandi dolori a sei anni? Mi hanno completamente tirato via dal mio ambiente naturale, strappato dal mio mondo e mandato in un nuovo mondo per me sconvolgente. Avevo un bosco, un fiume e sono andato dove c’erano strade, case piene di gente. Tanto è vero che quando sono arrivato nel caseggiato di Modena ho chiesto: “Quelli che abitano qui sono tutti nostri parenti?”. Una volta si viveva nelle case con questi grandi nuclei familiari. Invece la risposta è stata: “No, non sono parenti”. Un mondo diverso, ho vissuto una realtà da immigrato.
Resta questa anomalia: poi sei cresciuto negli anni Cinquanta…
Dal ’45 al ’60.
…nell’Italia cittadina che scalpitava e che si ricostruiva. Diventando urbano.
Sì.
Coi tuoi amori culturali e musicali, l’America innanzitutto. Tu hai insegnato italiano agli americani nella succursale della John Hopkins University a Bologna fino a metà degli anni Ottanta. Sei impastato d’America profondamente. In qualche modo a sembrare un luogo mitico allora era Pavana. Invece ormai hai deciso di finirci i tuoi giorni.
Difatti… guardo fuori dalle finestre questo verde, queste case che conosco fin da bambino. Tetti sotto casa, i miei. Vedo che la finestra di sinistra è Toscana e la finestra di destra è Emilia. È capovoltà la realtà. L’Emilia sarebbe a sinistra e la Toscana a destra, ma c’è un lembo di Toscana che per antiche ragioni medioevali si immerge nel territorio emiliano. Lo conosco benissimo. Chi abitava in quella casa lì, chi in quella casa là, dove è nata mia nonna. Purtroppo l’unico rimpianto è che una volta ero un gran camminatore. Non riesco più a percorrere questi boschi come facevo una volta. Le possibilità ci sarebbero ancora, ma non ho più voglia di farlo. Però rimane sempre questo senso del territorio. Di “vallarlo”, come diceva un mio amico prima di morire, “col vaglio e col crivello”. Diceva: “Guarda questi boschi, una volta li vallavo tutti come un cane da caccia, adesso duro fatica – faccio fatica – a vallare da qui fino al bar". Io gli dicevo quelle cose tipo “Va là, ma no dai, ti rifarai”. E lui: “Non ho più lena”. E adesso tocca a me. La forza ce l’avrei ancora, ma non è più quella di 10 anni fa. C’è un piccolo rimpianto, ma non mi lamento.
E quando scendi a valle per raggiungere il nostro mondo volgare? Che succede?
Mi ha scritto una lettera un’amica romana che studiava a Bologna all’inizio degli anni Settanta. Rimpiangeva quel periodo e conveniva con me che Bologna non è più la Bologna di una volta. È diversa, cambiata. Non ci sono quelle compagnie. Renzo è uno degli ultimi che se ne è andato, ma quanti sono andati, l’Osteria di Vito… Manca questo, quello, la compagnia si è sciolta. Non è più quella Bologna che invitava a viverla, a esserci dentro.
Leggo le diatribe di Via del Pratello dove gli abitanti protestano perché alla notte le osterie li tengono svegli. E dico “che Bologna è?” Non è più quella Bologna di quando andavi in stazione di notte e trovavi tutti. Prendevi il giornale e il caffè. Adesso è tutto chiuso. Non c’è più niente di tutto questo. Forse si rimpiange la gioventù che non c’è più.
Però quando fai i concerti ti immergi nelle altre città. In un pubblico che è quello urbano, e che ti vuole bene.
Urbano non so. Sento che è un pubblico molto affettuoso. Questo è molto bello. Giovanissimi e miei coetanei, diverse età: questo è il bello, tre generazioni almeno. Mi chiedo come mai.
Sei ancora stupito di questa cosa?
Sì, sì. Da un lato vorrei andare in pensione, dall’altro so che non è possibile per chi fa il mio mestiere, finché c’è forza e voglia di scrivere. È un pezzo che non scrivo canzoni. Ma dico “Domani scriverò una canzone perché ho delle idee…”.
A proposito di cassetto come siamo messi? Quante ce ne sono di pronte, di canzoni nuove?
Tre pezzi… e due, tre idee per la testa che vedrò di realizzare.
Sempre dal libro un ultimo passaggio che riguarda tua figlia Teresa. Allora era una bimbetta. Dicevi: “La cosa più importante è soprattutto sentire che dopo di me ci sarà Teresa. Che a lei lascerò una traccia, una memoria, una timida direzione di vita, un gusto per certe cose, certi luoghi, certe letture. Certo, a volte penso che tutti i miei libri, gusti e interessi se ne andranno con me. Ma al fondo ho la certezza, come si dice, che i figli dei gatti di solito mangiano i topi. È difficile nella vita staccarsi in maniera profonda dalle proprie radici”. Molto gucciniana questa…
Sta andando un po’ così.
Teresa ha 30 anni oggi.
Adesso è andata a lavorare nell’ufficio con i figli di Renzo. C’è questa continuità…
Manager e produttrice?
Produttrice forse no, ma… anche, anzi sicuramente. Certe cose sono rimaste perché appunto “i figli dei gatti non possono non mangiare i topi”. Tra l’altro, oggi il gatto prima mi ha portato un topo in casa e poi una lucertola, che è stata presa e rimessa nel verde.
I gatti di montagna lo fanno ancora?
Sì, me ne hanno presi più di 110, li ho contati. La cosa buffa è che si credeva una volta che li portassero per far vedere quanto sono bravi. Invece lo fanno per insegnarti come si catturano. Ma tu sei un poveretto, in quanto non sei un gatto e non lo sai fare. È molto bello questo. Come la mamma gatta. Ha un fine didattico quando ti porta i topi in casa.
E tu cosa hai insegnato a Teresa?
No, non si insegna niente, sai. Non si dice “fai questo, quello”. Si può anche dire, ma più che altro è una quotidianità, un modo di essere, di impostare le cose, certi discorsi li fai in un certo modo. Manifesti opinioni, che il più delle volte vengono contestate, ma anche nel modo più soffice possibile è la maniera migliore. Prendono su le tue moralità, le tue cose.
Sei fiero di lei?
Sì, come ogni padre. Anche se vengo da una famiglia che concedeva poco. La mia compagna adesso ha un fratello che fa il giornalista. Sono andato a casa loro e mi hanno fatto leggere la tesina che ha fatto, portandolo in palmo di mano. “Uguali ai miei” ho detto, che non mi hanno mai fatto una lode per una canzone… Appartengo a quella generazione, non sono prodigo né di lodi né di consigli. Il più delle volte sto zitto, sembro un padre indifferente, invece non è vero. Però mi telefona il più delle volte quando comincia il telegiornale. Mi dice “Babbo, volevo dirti…” alla toscana, come mio padre. E io le dico: “Teresa, sempre a quest’ora! Ma allora lo fai apposta!”.
Questo la dice lunga sull’interesse dei giovani per i mass media. L’amore per le notizie i ventenni ce l’hanno ancora secondo te?
Forse ce l’hanno in maniera diversa. Praticano delle cose per me misteriose. Adopero il computer, ma non come lei. Anche Internet, un po’ ci traffico, ma non lo so adoperare come mia figlia. Hanno altre cose per la testa.
Tu non chatti su internet? E non usi Skype?
So a mala pena cos’è.
Però se devi cercare qualcosa forse sei più bravo di lei.
No, più bravo no. Cerco, ho già visto che Wikipedia è molto superficiale, non approfondisce. Chiedono sempre di intervenire a completare e correggere ma io non saprei come fare, né perché dovrei farlo. Rimango un po’ perplesso.
Per chiudere, rimestando tra le tua canzoni mi sono ricordato un frammento di “Lettera” che secondo me potrebbe essere la nostra chiusura. Te lo leggo, vorrei cantarlo ma è meglio se lo leggo. Vediamo se te lo ricordi.
Ma il tempo, il tempo chi me lo rende?
Chi mi dà indietro quelle stagioni…
di vetro e sabbia…
chi mi riprende la rabbia e il gesto, donne e canzoni…
gli amici persi, i libri mangiati, la gioia piana degli appetiti,
l’ arsura sana degli assetati…
la fede cieca in poveri miti…
Come vedi tutto è usuale, solo che il tempo stringe la borsa
e c’è il sospetto che sia triviale l’ affanno e l’ ansimo dopo una corsa,
l’ansia volgare del giorno dopo,
la fine triste della partita,
il lento scorrere senza uno scopo di questa cosa… che chiami… vita…
L’avrei potuta scrivere ieri questa canzone, dopo la morte di Renzo. Forse ne scriverò una anche per lui. Sì lo farò. Una delle ultime volte che sono andato a trovarlo mi disse: “Guarda cosa devo fare per farti scrivere una canzone!”.
Ecco lo spirito vero di Renzo Fantini, che dal letto di morte ti dice: "Guarda cosa devo fare per farti scrivere una canzone!". Grazie Francesco, buon compleanno!
Grazie Massimo, ciao.