“Nessuno sa chi o cosa sia un americano. Non vediamo le cose alla stessa maniera, non abbiamo gli stessi valori, le stesse conoscenze, la stessa storia, non parliamo la stessa lingua. In qualche modo credo che l’America sia una cosa molto più unitaria, un qualcosa molto più facile da conoscere per uno che non è americano che per un americano stesso”. Così disse una volta il professor Greil Marcus, decano emerito del giornalismo rock nonché professore nelle miglior università d’America. Che cosa sia l’America, meglio gli Stati Uniti d’America, è la grande domanda che appassiona da sempre certi protagonisti della storia del rock. Lo fanno meglio di altri, impegnati in diverse forme d’espressione, perché come disse una volta Keith Richards, “l’America ci ha dato due cose: la Coca Cola e il rock’n’roll”. Lasciando perdere l’umorismo del chitarrista degli Stones, è vero che forma musicale più genuinamente americana del rock non esiste: solo lì poteva nascere una miscela che mettesse insieme peccato e redenzione, desiderio di terra promessa e vita on the road, un eterno “sabato sera” e voglia di “casa dolce casa”, meglio se con torta di mele sul tavolo.
 



Da quando Paul Simon intonò “Counting the cars on the New Jersey Turnpike: they’ve all come to look for America All come to look for America” (contare le macchine sulla tangenziale del New Jersey, sono tutti venuti in cerca dell’America) a quando Bruce Springsteen urlò orgoglioso di essere “born in the Usa”, nato negli Usa, la domanda su cosa sia effettivamente un americano ha riecheggiato forte nella musica rock. D’altro canto, se uno come Bob Dylan ha detto che “nella mia musica non ho fatto altro che navigare in quel grande mare che è l’America”, un motivo ci sarà.



 

Tra questi “cercatori d’America”, un ruolo di primo piano lo merita senz’altro John Mellencamp, a inizio carriera soprannominato maldestramente John “Cougar” e da se stesso “Little Bastard” per il carattere non proprio alla mano. Infelicemente rinchiuso inizialmente in una di quelle etichette buone per chi si accontenta di poco, e cioè esponente del “blue collar rock”, il rock della classe operaia (come se esistesse un rock dei colletti bianchi), John Mellencamp è uno dei più profondi e completi ricercatori rock dello spirito americano. Forse perché viene dalla parte più profonda dell’America, la provincia stesa in mezzo a campi di mais e pascoli di mucche, l’Indiana, e non le frenetiche e cocainomani New York o Los Angeles da dove arrivano sempre le rock star.



Esce adesso un ambizioso cofanetto di ben quattro cd “On the Rural Route 7609”, titolo già significativo (strada rurale, che mette insieme le speranze, le illusioni e la realtà d’America più profonda, quella appunto rurale), che non è la solita raccolta retrospettiva dedita a celebrare una delle tante longeve carriere del rock (che Mellencamp ha esordito nel lontano 1976). E’ molto di più. Certo, funziona anche in quel senso, ma già il fatto che sia stato lasciato fuori il suo brano più famoso e in un certo senso rappresentativo, Smalltown, sentito tributo alle cittadine di provincia contro il mito della grande metropoli americana dove ogni sogno è possibile, dice che questa non è solo una raccolta di successi. Ogni cd infatti è stato curato dallo stesso Mellencamp come se fosse un cd a se stesso, non una carrellata cronologica.

Dei 54 brani complessivi, 17 sono del tutto inediti, molti altri sono versioni differenti o semplici demo registrati nell’intimità della propria casa. E la gran parte dei brani conosciuti sono canzoni a torto considerate minori nella sua carriera, ma che invece in questa rappresentazione danno l’idea perfetta di un americano alla ricerca delle sue radici. Ecco allora la presenza in questi cd dell’attrice vincitrice di un premio Oscar Joanne Woodward e dello scrittore/educatore Cornel West che hanno registrato appositamente dei reading su testi di Mellencamp. Il ritratto complessivo che se ne ha, in un cofanetto elegante del formato del coffee table book, con un libro che contiene un lungo articolo del giornalista Anthony De Curtis, una intervista allo stesso Mellencamp e foto rare, è quello illuminante di un americano impegnato con se stesso fino in fondo.

Il volto di quelle smalltown di provincia, le “pink houses” della canzone omonima, le piccole casette rosa con giardino che a ogni americano sono dovute per diritto quasi costituzionale, insomma l’America dove resistere (Mellencamp insieme a Neil Young è il fondatore del Farm Aid, concerto che ogni anno raccoglie fondi per le famiglie di agricoltori in crisi), dei valori antichi, lontano da New York, da Los Angeles dove piuttosto il sogno americano è andato a sgretolarsi, sono il volto delle canzoni di John Mellencamp. Brani come Jack and Diane, Jackie Brown, Love and Happiness, Pink Houses, Cherry Bomb, Peaceful World, To Washington, sono il riassunto di un viaggio al cuore dell’America, tra ritmi rock, soul, R&B, musica bianca e musica nera riassunte brillantemente in una miscela unica.

Una miscela che mette insieme in modo coraggioso James Brown e Woody Guthrie: è la miscela del “coguaro”, il piccolo bastardo John Mellencamp, che è anche una delle voci rock più belle di sempre, sporcata di Bourbon e fumo di sigaretta. Troppo americano, questo il suo torto, al punto che in Italia a suonare non c’è mai venuto. A dire il vero una volta ci venne, a inizio carriera. Fu invitato a presentare quello che allora era il suo nuovo disco al programma pomeridiano televisivo condotto da Pippo Baudo. Fu obbligato a esibirsi in mezzo a ballerini camuffati da orsi e altre coreografie finto-americano. Ci rimase così male che giurò di non rimettere mai più piede in Italia. E da quel "Little Bastard" che è, ha mantenuto la parola. Qui in Italia non ha mai tenuto un concerto. Della serie: mai scherzare con un americano, specie se non si sa cosa voglia dire essere americani.