La figura di Pavel Florenskij (Evlach, 9 gennaio 1882 – Leningrado 8 dicembre 1937) è di quelle che segnano un’epoca. Scienziato, teologo, filosofo, sacerdote, amico di intellettuali d’avanguardia e fedele custode della grande tradizione dell’Icona, inventore prezioso per l’industria sovietica e infine martire dei Gulag (fu internato per molti anni nell’inferno delle isole Solovki) in tutto Florenskji seppe infondere l’entusiasmo e la sete di verità che, fin dall’infanzia, fu una delle caratteristiche dominanti della sua personalità.



La sua passione per le arti è ampiamente testimoniata dai suoi scritti e dalla sua corrispondenza: la grande pianista Maria Yudina fu una cara amica e sostenne la famiglia di Florenskij dopo l’arresto e l’internamento nel lager. L’articolo di Laura Cioni mi offre lo spunto per approfondire alcune interessanti considerazioni del pensatore russo in rapporto alla musica e al significato dell’arte in generale.



La provocazione è certamente forte: «Quando cerco una risposta definitiva circa la questione del valore di un’opera, mi chiedo che cosa succederebbe se quest’opera non esistesse. Senza di essa il mondo perderebbe qualcosa? Si spegnerebbe uno dei raggi della vita?».

A partire da un giudizio così chiaro tenterò un piccolissimo excursus a puntate da Bach a Shostakovich per mettere alla prova il criterio fornitoci da Florenski.

Iniziamo dunque da Bach e precisamente dal secondo movimento (Andante) del Concerto in stile italiano BWV 971. Nonostante la qualità audio non esaltante propongo l’esecuzione della Yudina (un live del 1953) per la sua altissima qualità interpretativa.



 

Marija Judina, pianoforte

 

Il brano ci introduce letteralmente in un mondo in cui rigore e libertà non sono opposti ma, secondo un antico desiderio dell’uomo, si compenetrano in una sorta di fantasmagorico canto che raggiunge le vette di quello che Beethoven chiamerà “intimissimo sentimento” proprio grazie alla compresenza di un accompagnamento segnato da una figura costante (i due rintocchi del basso e piccoli frammenti di scale ascendenti o discendenti) e di una soave, erratica melodia che sembra percorrere senza peso alcuno la tastiera, mossa da continue illuminazioni e repentini ripensamenti in un supremo gioco di libere associazioni che si inseguono fino al pensoso accordo finale, ancora una volta interamente mosso dalla presenza di un ritardo.

Davvero il pensatore russo ha qui colto nel segno: dove, se non nella musica di Bach, potremmo trovare l’impossibile connubio tra regola e rapsodia, tra finito e (come avrebbe detto Florenskij) transfinito, tra contingenza terrena e leggerezza celeste? Senza lo sguardo sul mondo che ci insegna Bach saremmo, senza dubbio alcuno, decisamente più poveri e smarriti.

(continua…)

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