Finalmente un disco italiano fuori dal coro, fuori dal comune, fuori dai cliché. È “La porta dietro la cascata” dei Sursumcorda, una formazione che da cinque anni insegue un progetto musicale in cui musica classica e influenze etniche si sposano con sapori jazz per una confezione finale totalmente acustica di grande effetto.
Un doppio Cd di tante chitarre, di tanti suoni e di tanti strumenti (violini a bizzeffe, ma anche follie euro-africane come cristallarmonium, indonongo, infanga…). Soprattutto un disco carico di idee, di coraggio, di ironia e finanche di poesia, se è vero che questa band si presenta con una riflessione sui frattali – elementi geometrici in cui la parte è identica al tutto – e con un incipit (sul libretto del Cd) davvero inquietante: “Ritenendo di essere frattali possiamo pensare di trovare l’Infinito dentro noi stessi, essere noi stessi custodi dell’infinito, essere noi stessi l’immagine dell’infinito”. Senza contare che loro stessi del titolo scelto per questo disco dicono che è un’esortazione, “un invito a non fermarsi di fronte al fascino della bellezza, ma a spingersi oltre, oltre la cascata, accettando il rischio della profondità”.
Accidenti: stiamo parlando di musica o di esistenzialismo? No, tranquilli: il disco è bello e si ascolta persino con facilità. E allora proviamo a raccontarne qualcosa di più con l’aiuto di chi l’ha realizzato. I Sursumcorda sono cinque musicisti di estrazione classica d’area milanese: Piero Bruni ed Emanuele Cedrone alle chitarre, Francesco Ghiozzi al pianoforte e Fabio Carimati alle percussioni; l’unico non milanese è il livornese Giampiero Sanzari, anche lui chitarrista. Ed è proprio quest’ultimo con cui abbiamo piacevolmente dialogato di musica, di questo disco e di alcune altre amenità legate al nome stesso della band…
Caro Giampiero, in un momento in cui bisogna andare a X-Factor per aver successo, possibilmente con scelte musicali facili-facili, voi ve ne uscite con un disco a metà strada tra la musica da camera e l’avanguardia. Siete sicuri di avere i piedi per terra?
Forse ci siamo mossi con un po’ di follia e d’incoscienza in un periodo come questo, in cui si vendono pochi dischi e tutti piuttosto omogeneizzati. Avevamo fatto una scelta: fare un disco di qualità prendendoci tutto il tempo necessario per realizzarlo, nonostante la crisi. Alla fine ci abbiamo messo oltre un anno e mezzo, un’enormità. E per fortuna che abbiamo anche provato a fare le cose in economia, coinvolgendo tanti musicisti che credevano nel progetto e nello stile, più che nei risultati economici che gli promettevamo….
Quindi per tornare alla domanda: avete i piedi per terra, ma sapete di aver fatto una cosa fuori dal coro. Se va male è solo colpa vostra…
Potremmo dire che potevamo andare controcorrente e così abbiamo fatto. Volevamo creare una cosa unica e particolare e forse ci siamo riusciti. La verità è che vogliamo cercare di definire uno stile unicamente nostro in maniera precisa. E poi accada quel che deve accadere!
Siete tutti figli di lunghi studi in Conservatorio. Quale è il vostro background?
Siamo una bella accozzaglia di culture e caratteri diversi. Direi che c’è chi suona e ascolta di tutto, poi c’è qualcuno che predilige il jazz, altri che vogliono solo e rigorosamente musica classica. Volendo sintetizzare direi che siamo così diversi che alla fine la nostra ricerca è ricreare l’eclettismo musicale di fine Ottocento.
La porta dietro la cascata è un disco poliedrico, un concept album che sarebbe piaciuto a Frank Zappa…
Beh, saremmo felici se lui potesse ascoltarlo e apprezzarlo, proprio perché Zappa è un eclettico, un grande, un precursore. Noi più umilmente cerchiamo da anni di ricreare suggestioni assorbite studiando, ascoltando e girando per il mondo, suonando per strada o nei teatri, confrontandoci, lavorando insieme…
In uno dei pezzi più convincenti del disco, Nascita nuova, si parla di rinascere, di seguire quel “desiderio mai sopito, in questa vita che per incanto, adesso, nasce nuova”.
Rinascere è sempre essenziale per una persona, dopo un pezzo di vita, dopo un amore, dopo un errore. Qualsiasi rinascita è un risveglio: siamo sopiti e c’è qualcosa che ti sveglia.
La canzone più ricca, più fascinosa è forse Infinito che porta un’immagine marinara magnifica di un lui che “tornerà, portando in mano qualcosa di grande”.
Parlare di infinito non è mai facile. Noi abbiamo privilegiato una nostra licenza poetica per provare a dirlo. Certo parlare di “qualcosa di grande” aiuta a raffigurarselo.
Perché parli di poesia?
Il testo per noi va sempre di pari passo con la musica in quel che realizziamo. Realtà, immaginazione, desiderio: queste cose ci sono tutte e si mescolano insieme nei nostri brani. Una canzone del cd, La mia bisnonna è in buone mani, è un piccolo fatto reale di cui si cerca una resa poetica convincente. Nel nostro caso cercare di scriver qualcosa di poetico ha un motivo funzionale, perché la poesia è qualcosa che in passato ha fatto da collante tra di noi della band, è stato il terreno comune per comprendere la base del nostro discorso musicale.
Musica classica, riflessioni poetiche, strumenti africani, eclettismo: ma in Italia c’è spazio per produzioni così atipiche e indipendenti?
Ce lo siamo chiesti tante volte e la risposta è “si!”. Nel passato ci hanno detto in molti “siete di nicchia”, ma in realtà tutti i più grandi sono partiti dalla nicchia. Quindi non ci spaventa l’atipicità: se siamo nella nicchia, prima o poi si allarga.
Ma credi che la vostra sia.. musica difficile?
Io non credo. Il nostro stile forse non ha la forza di certe cose costruite con la superficialità necessaria per essere bruciate tutte e subito, ma ha elementi di notevole immediatezza. Sono certo che ci sono canzoni di questo Cd con melodie e armonie rapide nell’essere percepite..
Concordo: Infinito e Tutti i fiumi vanno al mare sono così immediate da essere addirittura… cantabili (se si può dire….)
È vero. Però noi abbiamo scelto A la merci du voyage come singolo per le radio. Ci abbiamo messo un anno e mezzo per finirlo…
Avete lavorato in questi ultimi anni a due progetti culturali e documentaristici dedicati al Pio albergo Trivulzio e al Guercino. Cosa avete trattenuto musicando quelle storie?
Entrambe le esperienze ci hanno lasciato un grande bagaglio umano e artistico. Lavorare sulle colonne sonore di documentari è un’esperienza che ti segna in profondo perché ti costringe a confrontarti con un “fuori” che ti interroga. Il documentario sul Guercino è meraviglioso per fotografia e per narrazione, mentre la storia dei Martinit ci ha toccato profondamente, perché è molto facile essere anche emozionalmente vicini ai temi dell’infanzia, perché ti segnano come pochi altri…
Dimenticavo un’ultima domanda, che forse poteva essere la prima: vi chiamate Sursumcorda, come dire "In alto i cuori". Prima di tutto è strano trovare una band che prende il nome da una frase della Messa latina e poi, più in generale, è difficile trovare qualcuno che oggi voglia mandare un messaggio positivo….
Ma il nostro desiderio è proprio quello di tentare di essere positivi oggi. Quando dovevamo scegliere la nostra identità attraverso il nome, abbiamo optato per qualcosa che desse senso di positività: "in alto i cuori" è una frase che usavano i nostri nonni per dire su con la vita. Certo ha anche quel grande significato della messa latina, anche se non tutti lo colgono. È qualcosa che secondo me suona bene, anche perché contiene in più la parola cuore e poi il senso dell’"in alto", insomma è il nome del gruppo e raccoglie tutto quello che volevano essere…