Quattro chitarre, tra elettriche e acustiche. Un tastierista che ogni tanto si alterna al flauto traverso, così come fa il cantante/frontman, e poi ancora basso e batteria. Non capita spesso di vedere su un palco italiano un ensemble di ben sette musicisti (e dire che i Midlake in questo tour europeo non hanno portato la loro cantante/violinista).
È un bel vedere, comunque, sul palco del Magnolia di Milano, luogo principe dell’indie italiano e internazionale, allietato questa sera da una brezza leggera che allontana i nugoli di zanzare che altrimenti renderebbero pressoché invivibile la zona retrostante l’Idroscalo, dove ha sede questo centro sociale/trend club da tempo cuore della Milano giovane e alternativa.
I Midlake arrivano dalla Finlandia, dove hanno suonato la sera prima, poi correranno a Vienna per giungere infine a Londra. Originari di Denton, Texas, sono un’anomalia per uno Stato che tutti conoscono per i cowboy, le mucche e George W. Bush.
Suonano una sorta di folk music che attinge tanto dalla stagione inglese anni Settanta, quanto da una certa musica rinascimentale europea. Niente di più lontano dal Texas, tanto che nella copertina del loro ultimo, splendido cd (“The Courage of Others”) si sono fatti ritrarre incappucciati come dei monaci medievali.
Chiedo a Tim Smith, autore della maggior parte delle musiche e dei testi della band, incontrato nel pomeriggio prima del soundcheck, il perché di quel look in copertina: «Amo il cinema di Andrei Tarkovskij» mi dice. Il che, detto da un texano, è già una bella sorpresa. «In particolare il film “Andrei Rublev” (storia di un monaco medievale, ndr). Quello che mi affascina di questo regista e di questo film è l’assoluta autenticità della sua opera. Guardando un film come “Andrei Rublev” tu non diresti mai che in mezzo ci fossero telecamere, microfoni, eccetera. È davvero autentico, realista nel modo più assoluto. Autentico. Così la foto di copertina del nostro disco è stato una sorta di tributo a quel film».
Non è l’unica sorpresa di questo texano 34enne, la lunga barba e i lunghi capelli rossi, da vero monaco: «Ero un musicista jazz. Suonavo il sassofono. Pensa che ho cominciato ad ascoltare gruppi rock come i Led Zeppelin solo adesso. Non so nulla o molto poco della storia della musica rock. Ho ascoltato molto folk inglese anni Settanta, ma non credo che la nostra musica sia simile a quella». Sarà per questo motivo, questa sorta di ignoranza rock, che i Midlake sono oggi, nel terzo millennio, uno dei pochi gruppi rock originali, che non si limitano a copiare qua e là ma propongono una affascinante miscela sonora unica.
Dal vivo ripropongono quelle ancestrali melodie fatte di armonie vocali quasi medievali unitamente a fragorose esplosioni rock, autentiche jam chitarristiche e ben dirette dal drumming straordinario del bravo McKenzie Smith. Il concerto al Magnolia di Milano li ha visti dedicare ugual spazio ai brani del loro secondo disco, “The Trials of Van Occupanther” a quelli del nuovo, “The Courage of Others”. Canzoni come Winter Dies, Courage of Others, Roscoe, Core of Nature, l’iniziale Children of the Grounds, Rulers of Everything. Tutti e sette barbuti, tutti e sette sorta di figure uscite da un film del vecchio West, tutti e sette alla ricerca di una bellezza impossibile, o per citare un loro verso, “una gioia che ancora devo trovare”.
Come dice un loro verso: “I will train my feet to go on with a joy, a joy I have yet to reach”, insegnerò ai miei piedi ad andare con una gioia, una gioia che devo ancora trovare. Pensando a questa frase, al monaco “Andrei Rublev” e alla loro musica, mi viene spontaneo citare a Tim Smith una frase della scrittrice Emily Dickinson, “Che la bellezza non sia provocata, essa è”…
Cioè, la bellezza esiste a prescindere, essa si impone: «Mi fa venire in mente proprio Andrei Rublev», risponde sorridendo Tim. «Anche per lui la bellezza era qualcosa che esisteva a prescindere, doveva solo riconoscerla». Poi aggiunge: «Dovremmo essere capaci di fare così anche noi, no?».
Acts of Man, il brano che apre il disco “The Courage of Others”, è uno dei momenti più indicativi di chi siano oggi i Midlake: la lunga frammentazione sonora che lo introduce ha dentro di sé un sentimento jazz che si fatica a trovare nella musica rock contemporanea. Così come è l’ultimo pezzo prima dei bis, Head Home: per essere dei musicisti che conoscono poco o nulla della storia del rock, per un istante sembra di essere trasportati in un aballroom della San Francisco psichedelica di fine anni Sessanta. Durante il nostro incontro avevo chiesto a Tim Smith come mai, nella canzone Core Of Nature, l’inclusione di un verso del poeta tedesco Goethe (“Into the core of nature no earthly mind can enter”).
Lui sorride: «Non è facile per me mettere giù i testi per le nostre canzoni. Li scrivo sempre dopo che ho composto la musica. Con una melodia riesco poi a sviluppare dei testi. Ma a volte mi mancano le parole. Allora prendo un libro di poesia che sto leggendo in quel particolare periodo per trovare ispirazione, e quando lavoravo a Core Of the Nature il libro era di Goethe. Se c’è qualcuno che ha già espresso meglio di te quello che stai cercando di dire, a che pro sforzarsi di inventare qualcosa di originale a tutti i costi?». Sul palco, i Midlake sembrano un po’ una versione alla Sergio Leone dei “magnifici sette”, e non solo per il numero.
Tutti barbuti, un look come appena usciti da un saloon di uno scalcinato paesino del vecchio West, se non fosse per le chitarre elettriche al posto delle Colt 45. Chiedo a Tim come mai secondo lui, oltre i Midlake naturalmente, in America negli ultimi anni si assista a una tale esplosione di gruppi composti da giovani che musicalmente vanno a pescare nella grande tradizione folk angloamericana: «Credo sia un bisogno naturale – risponde – di sfuggire alla società di oggi. Musicalmente, visto che le radio, le televisioni, le pubblicità propagano canzoni di plastica».
«Ma anche come sentimento» continua Tim Smith. «I testi delle mie canzoni a volte danno quest’idea di smarrimento, di nostalgia per un mondo antico che non esiste più. Ed è perché io in questo nostro mondo in cui viviamo non mi identifico per niente. Credo sia così anche per altre band, c’è un bisogno di identificarsi in valori che oggi non si trovano più e che invece una volta erano valori comuni».
Mentre ci salutiamo, chiedo a Tim Smith se questo bisogno di valori di cui parla, sia anche un sentimento spirituale: «Non so per gli altri gruppi» mi dice bevendo una lunga sorsata dalla birra che stringe in mano. «Ma io credo in Dio. Dio ha fatto ogni cosa…». Anche le zanzare che qui al Magnolia, a pochi passi dall’Idroscalo, ci hanno divorato per tutto il tempo dell’intervista. «Esatto – dice ridendo – Dio ha creato anche le zanzare».