Il dissolto impero sovietico attende esploratori coraggiosi, disposti ad avventurarsi in terre incognite. Ogni volta il viaggiatore audace ritorna carico di trofei. Da quelle nebbie sono emersi, tra gli altri, Alfred Schnittke, Sofia Gubaidulina, Giya Kancheli, Lepo Sumera, compositori di cui avevamo solo notizie vaghe e lacunose. Mancava all’appello una delle più radicali, feroci, enigmatiche figure del Novecento musicale, Galina Ustvolskaja.



Alex Ross, sul New York Times, nel lontano 1995, ne auspicava la scoperta. Invece le uniche righe che abbiamo letto sul suo conto sono stati scarni necrologi, quattro anni fa. Da allora una cappa d’indifferenza l’ha nuovamente avvolta.

Davvero speciale la sua vicenda artistica e umana. Nasce a Pietrogrado nel 1919, vive a Leningrado, muore a San Pietroburgo nel 2006. La triplice denominazione del medesimo luogo è emblematica insieme d’una prigionia, d’un legame vitale e d’uno sradicamento. Si diploma con Dimitri Shostakovich, che in lei riconosce tratti geniali: «Io sono un talento, tu sei un fenomeno», ama ripeterle. Cerca invano di sposarla. Le chiede consigli, è disposto alle revisioni che la prodigiosa studentessa ordinerà; nel Quinto Quartetto cita melodie della giovane allieva. È lui a difenderla dall’Unione dei Compositori, che ne criticano l’intransigenza morale, non ne sopportano l’incrollabile fede.



I primi lavori della Ustvolskaja (poi espunti dal catalogo) sono contrassegnati da uno stile retorico, celebrativo del regime comunista. Dopo la conversione ogni pentagramma si carica di un’intransigenza etica incandescente, di una densità spirituale quasi insostenibile. La Terza Sinfonia (“Gesù, Messia, Salvaci!) e la Quarta (“Preghiera”) pronunciano giaculatorie strumentali. Nella Quinta (“Amen”) una voce recitante declama il Padre Nostro

 

«Mi piace scrivere qualcosa, ogni tanto, ma dipende da Dio, non da me», minimizza. Spiega anche: «Sarebbe meglio che le mie opere fossero eseguite in una chiesa, non in una sala da concerto». In “Vera ed eterna Benedizione” (Sinfonia n. 2), desidera «avvicinarsi alla compostezza di certe icone». E, come Gregorio Nazanzieno, ripete: “Se non fossi di Cristo, mi sentirei creatura finita». Questa religiosità ostentata non è tollerata. Le confiscano l’appartamento, le tolgono l’insegnamento, negata ogni commissione artistica. Sopravvive solo grazie alla solidarietà di alcuni colleghi.



Non accetta inviti, onorificenze, non rilascia interviste, zero fotografie. Uno scatto pirata dei tardi anni Novanta lascia interdetti: sembra un’anziana scappata dal ricovero, confusa, caviglie gonfie quasi suine dentro a ciabatte malandate.

Ha composto venticinque brani in tutto, sette ore complessive, lavori eseguiti anche vent’anni dopo. Prima che una sua nota uscisse dal confine lei ha compiuto settant’anni.
Il suo stile non ha precedenti, né equivalenti. Passa dal quadruplo pianissimo a sei “f”. Ostinati soffocanti, clusters devastanti: Non usa valori inferiori alla croma. Clima rituale che fonde geometria febbrile e lucida passione. Può ispirare ammirazione, frustrazione, repulsione. Mai lascia tranquilli.

Roccia che si erge solitaria al centro dell’oceano, l’hanno chiamata; oppure, “la signora con il martello”. I suoi brani sono oggetti (quadri)tridimensionali che appaiono improvvisamente nello spazio, come il monolite di Kubrick.

 

 
 

 

Se la musica contemporanea ricorda la pittura astratta, la Ustvolskaja è scultrice. Un buco nero che tutto risucchia. La sua musica pianistica ricorda la staticità riarsa di Erik Satie. Ieratica semplicità. Austera, inesorabile, ossessiva. E’ capace di ribattere un accordo dissonante per decine di volte, annientando l’ascoltatore, incurante del mondo attorno a lei.

Utilizza le più bizzarre e brutali combinazioni: in Dona nobis pacem ottavino, basso tuba, piano; nel Dies Irae otto contrabbassi, pianoforte, cubo di legno da percuotere con apposita mazza. Il manoscritto della Prima Sinfonia è un grumo inestricabile di macchie, scarabocchi, segni aggrovigliati come rovi secchi; due voci bianche, tra lo sfrigolio di un tessuto incandescente, ripetono invocazioni del monaco benedettino Ermanno il Contratto. Quando il direttore d’orchestra Gennady Rozhdestvesky sfogliò lo spartito non capì da che parte girarlo.

Nella Sinfonia n. 5 la voce supplica come un disco rotto: “Oche Nash”, Padre Nostro. Attorno a lei indifferenza cosmica. Ma quando gli occhi si abituano alla mancanza di luce, nell’oscurità iniziano piano a delinearsi forme, sagome, contorni. Negli oscuri suoni della Ustvolskaja ci sembra d’intravedere un volto.