All’entrata della corte, invece di fare il saluto romano, l’imputato si era inchinato gentilmente, come di fronte a una dama. Era il marzo del 1936 e il giovane Massimo Mila, accusato di antifascismo militante, riceveva una condanna a sette anni di carcere. Solo una sentenza di tribunale era riuscita a interromperne la folgorante carriera.
Pavese, Ginzburg, Bobbio gli erano stati compagni di studi al torinese liceo D’Azeglio, l’amico Giulio Einaudi da lui aveva perfino ricevuto lezioni di latino, Benedetto Croce avendone intuito il talento gli aveva presto pubblicato la tesi di laurea.
Insegnante al Conservatorio di Torino, poi all’Università cittadina, critico musicale dell’Unità, dell’Espresso, della Stampa, in fitto rapporto epistolare con i più importanti compositori italiani novecenteschi, (da Dallapiccola a Berio e Nono), riverito, stimato, amato. È stato il musicologo più famoso del secolo scorso. Proprio in questi giorni compirebbe cent’anni. Negli ultimi mesi si stanno moltiplicando le conferenze e i concerti in suo onore, escursioni in quota accompagnate da canti alpini e letture a lui dedicati.
Studioso pionieristico e provetto alpinista (a lui è intitolato un rifugio sul Gran Paradiso), piemontese quasi indolente eppur sanguigno, calmo ma combattivo. Sull’asse culturale Foscolo-De Sanctis-Croce Mila costruisce la sua formazione umanistica. In lui etica ed estetica si compenetrano. “Capace di sintesi folgoranti e di una penna fuori dal comune, spiega Enrico Girardi, docente in Cattolica a Brescia.
“Certe sue immagini sono indimenticabili e spiegano la musica meglio di mille analisi. Era mosso da passione autentica. Ha intuito in anticipo il valore di molti musicisti del ‘900 storico, come Bartok e Maderna”. Carlo Maria Badini ha parlato di didascalismo rigoroso e lieve, comprensibile da tutti.
“Abilissimo divulgatore, conferma Claudio Toscani, della Statale di Milano, capace di coniugare il rigore e la serietà dello storico con un linguaggio semplice e diretto, alieno da tecnicismi ma attento alla dimensione culturale di una disciplina tradizionalmente riservata agli addetti ai lavori”.
Così puntualizza il direttore d’orchestra Francesco Maria Colombo: “Mi pare che in Mila giocasse negativamente la scarsa confidenza con il linguaggio musicale in senso stretto. Non so quant’egli sapesse suonare uno strumento a livello professionale, scrivere una Fuga, armonizzare un Corale a quattro parti: e chi non sia in grado di fare queste cose dovrebbe usare molta prudenza prima di emettere giudizi musicali. Tuttavia la sua scrittura era felicissima, trasparente, nitida, senza compiacimenti, sintetica e narrativa allo stesso tempo. La traduzione dell’autobiografia di Wagner è splendida”.
La sua "Breve storia della musica", il celeberrimo libretto bianconero dell’Einaudi, è stata a lungo il manuale di riferimento d’ogni studente italiano di Conservatorio. Molte di quelle pagine pullulano di rassicuranti luoghi comuni, con qualche nota stonata. Per esempio, il canto gregoriano non costruisce con logica, ma ondeggia mollemente, Bach è pio umile devoto e remissivo, gli svolgimenti di Schumann sono freddi, artificiosi, faticosi e la sua musica descrittiva scade al grado d’illustrazione, Schubert è gentile, elegiaco e casto (la meretrice che gli passò la sifilide concorda), e via di questo passo.
Ma le conoscenze sulla musica antica all’epoca erano embrionali, il monumento bachiano si è sgretolato solo in tempi recenti e “la colpa di questo improvviso invecchiamento è lo sviluppo turbinoso che da un trentennio ha investito gli studi musicologici, nonché l’impostazione idealistico-crociana miliana”, spiega Toscani.
A volte certi suoi giudizi appaiono condizionati da implicazioni ideologico-politiche. In questa luce si possono meglio comprendere le radici di alcune sue ingiuste valutazioni: quando accusa Rachmaninov di macchinoso virtuosismo pianistico, Bruckner di plateale imperizia costruttiva e lo dipinge come “compositore avvolto da nebbie, trucchi, vaghezza, suggestione”, mentre Hindemith è “artista tetragono, che accetta grigiore e tristezza del collettivismo senza romantiche recriminazioni”.
Prima del valore oggettivo di un’opera Mila pare considerarne impegno civile e presunta moralità. Terreno scivoloso e ambiguo. Così le eroine pucciniane diventano figurine evanescenti, la musica contemporanea è sana e valida, ma solo se proiettata in avanti. Quando non ne riconosce la qualità, Mila teorizza un distacco emotivo dal brano.
Al direttore d’orchestra Gianandrea Gavazzeni, che si ostina ad amare Giordano, Mascagni e soci, contesta: “la familiarità con un certo repertorio genera confidenza, questa crea affetto, e l’affetto acceca”. Parole che non crederesti sue, lui che tutti aveva contagiato con la gioia di un metodico e totale coinvolgimento passionale.
Peccatucci, minuzie, ombre bianche. Da vero scalatore sapeva annusare perfino l’aria, prima di salire in vetta. E, nel caso, cambiare sentiero. Lo avrebbe fatto ancora, senza indugiare.