«Personalità d’artista inconfondibile e grande. Balzana solo secondo il metro con cui il pacifico borghese giudica colui che batte i sentieri tortuosi invece delle vie maestre e spianate». Chi scrive, in un suo vecchio saggio, è il critico musicale Piero Rattalino, una vita intera dedicata alla storia dell’interpretazione pianistica, del pianoforte e dei più grandi concertisti. Il soggetto in questione però, non ha la stessa fama di Artur Rubistein, Vladimir Horowitz o di Arturo Benedetti Michelangeli. Stiamo parlando di Maria Judina, pianista russa dalle doti straordinarie, nata nel 1899 e scomparsa nel 1970, ma oggi praticamente dimenticata in Occidente.
In occasione del Meeting di Rimini di quest’anno, che dedica a questa figura una mostra e un ambizioso spettacolo teatrale, IlSussidiario.net è tornato a intervistare il M° Rattalino, per cercare di cogliere «quei frutti selvatici che non si trovano sulla via maestra, ma di cui la Judina andava pazza».
Circa trent’anni fa, nel suo libro “Da Clementi a Pollini”, Maria Judina trovava posto in un capitolo chiamato non a caso “Immortali in incognito”. Perché questa figura ancora oggi non gode della considerazione che meriterebbe?
La sua storia si intreccia inevitabilmente con quella della Russia. Quando scoppia la Rivoluzione d’ottobre nel 1917 è ancora una giovane ragazza. Molto tempo dopo, a partire dagli anni Cinquanta, alcuni suoi colleghi, come Gilels e Richter, hanno modo di farsi conoscere all’estero, ma non sarà il suo caso. Non è più giovanissima e viene ormai considerata una donna bizzarra, una “pazzoide” da cui è lecito aspettarsi qualunque cosa.
Cosa intende?
Era una donna viscerale, con un temperamento fuori dal comune, non sapeva tacere e non nascondeva la sua fede ortodossa. Quando il suo amico Boris Pasternak, osteggiato dal regime, morì, decise di leggere le sue poesie dal palcoscenico prima di un concerto. I dirigenti di partito ovviamente abbandonarono il teatro. Non le accadde nulla di grave, ma furono comunque tempi durissimi. Il suo amico e compagno di studi Dmitri Shostakovich subiva pressioni enormi e veniva continuamente accusato di “formalismo”, questo non accadeva alla Judina, che, nel campo dell’interpretazione al massimo poteva essere accusata dell’esatto contrario…
Venne comunque osteggiata?
Sì, condusse una vita molto misera economicamente, incontrando parecchie difficoltà sia come insegnante che come concertista. Stalin in persona però la stimava molto come musicista e questo le evitò guai peggiori. Probabilmente si salvò anche perché in molti, credendola matta, chiudevano un occhio. Diciamo che il suo abbigliamento bizzarro poteva impressionare, ai concerti sotto le sue lunghe e discutibili vesti nere portava le scarpe da ginnastica…
Era davvero la pianista preferita del dittatore?
È un fatto molto noto, ma non si può non ricordare che quando Stalin sentì alla radio la sua esecuzione del Concerto per pianoforte e orchestra n. 23 in La Maggiore K 488 di Mozart, volle a tutti i costi il disco. Nessuno ebbe il coraggio di dirgli che il concerto non era stato registrato e così venne inciso nella notte, in gran segreto. Stalin le fece avere un premio in denaro, che lei ebbe addirittura il coraggio di rimandare al mittente, senza rinunciare a esprimere rimproveri e raccomandazioni per la sua anima. Ecco cosa intendevo quando parlavo di un “temperamento fuori dal comune”…
L’impossibilità di farsi conoscere in Europa e i continui ostacoli del regime le hanno perciò impedito di lasciare un segno?
In realtà non sapremo mai se in Europa avrebbe avuto maggior fortuna, se l’avrebbero capita e accettata. Possiamo certamente dire che, pur provenendo dalla scuola di Nikolaev, come Sofronitzki e Shostakovich, nella cultura russa ha rappresentato qualcosa di unico e di alternativo, a cui non è stato permesso di affermarsi.
Riguardo al repertorio di un pianista lei solitamente trae delle conclusioni importanti. Cosa l’ha colpita in questo caso?
In realtà qui manca un tassello. Non è mai stato ricostruito, com’è stato fatto per Richter e Gilels, il repertorio completo, con i programmi di concerto e il numero di esecuzioni divise per decadi. Può sembrare un’esagerazione, ma è l’unico modo per poter dare un giudizio sulle scelte culturali che un interprete ha compiuto e su come le ha sostenute nel tempo (anche il “dove” è importante: eseguire, ad esempio, la Sonata di Stravinskij, ben vista in Unione Sovietica, a Novosibirsk e a Mosca non è certo la stessa cosa). Chissà se negli archivi di regime esiste ancora la “Pratica Judina” e se qualche giovane musicologo russo ha voglia di fare una tesi sull’argomento…
Grazie ai dischi invece che idee si è fatto?
Quando nel 1982 scrissi quel libro era in pratica ancora sconosciuta, anche se c’era già parecchio materiale, inciso intorno al 1970. Abbiamo la possibilità di sentirla eseguire Schönberg, Stravinskij, Bartók, Berg, Prokofiev, Hindemith, Shostakovich, i più importanti compositori del suo tempo, oltre a Bach, Mozart e Beethoven. Era molto portata per la musica del Ventesimo secolo. L’esecuzione della Sonata di Stravinskij a mio parere è esemplare (e decisamente migliore di quella dello stesso autore) e lo stesso vale per quella di Berg. C’è poi un altro dato sorprendente.
Quale?
Pur essendo “rinchiusa” in Unione Sovietica aveva una vivace corrispondenza con Nono e Boulez. Era infatti molto interessata alle avanguardie, anche se non sappiamo se abbia mai eseguito le opere di questi due autori. Quelle lettere, per la loro importanza, andrebbero senz’altro pubblicate. Sempre a proposito di dischi, c’è da dire che negli ultimi anni sono uscite incisioni beethoveniane e un’incisione di Mozart che mi ha decisamente colpito.
Per quale motivo?
Per la sua interpretazione “furiosa” che sta all’opposto, per demonismo, violenza e personalità a quella “apollinea” di Gilels. È interessante oggi mettere a confronto proprio il “pianista ufficiale” del regime (senza voler togliere nulla a quest’ultimo) e la Judina. A quei tempi non era il pubblico a decidere chi valeva di più e chi di meno, ma il potere. E la cultura sovietica, dominata dal potere, scelse Gilels.
Su quale pagina si può fare più facilmente questo confronto?
Prendiamo il primo tempo della Sonata in la minore K 310 di Mozart. Osserviamo la differenza di approccio, il pathos, la furia della Judina nell’esposizione. Lei porta la musica allo stato di pre-sublimazione, la riporta al momento in cui quella musica tumultuosamente sta nascendo, quando Mozart scrive e sua madre sta morendo.
Anche in questo caso non si tratta quindi di “stravaganze”, ma di “chiarissime intenzioni”, come spiegava lei stesso riferendosi ad altre pagine?
Esatto, ciò che lei fa in Mozart un tempo poteva sembrare arbitrario, personalistico, soggettivo. Oggi, grazie soprattutto agli studi degli specialisti del fortepiano, le sue posizioni hanno piena legittimità. Il suo approccio non si può ridurre a un’esplosione isterica e potrebbe anzi fare da modello a coloro che oggi suonano il fortepiano e non applicano i canoni d’interpretazione del neoclassicismo del ‘900. Qui però il discorso si allarga e coinvolge l’idea stessa d’interpretazione.
Cosa intende?
Gli storici hanno dimostrato che fino al 1914 gli spazi d’intervento degli interpreti erano più ampi di quanto si pensasse anche in tempi recenti. I compositori stessi si aspettavano questi interventi “creativi”. D’altronde la musica non è data dalla composizione di x interpretata in maniera passiva da y, ma dall’incontro di due personalità. Questa è la sua salvezza: se ci fosse una verità assoluta, una volta raggiunta, la partita sarebbe finita.
(Carlo Melato)