A dieci anni dalla scomparsa ci mancano le sue bizzarrie, il suo falotico mutare repertorio, tocco, partner, sentieri. Friedrich Gulda avrebbe compiuto ottant’anni in maggio. L’ultima sua follia era stata l’annuncio anonimo della propria morte, un anno in anticipo sui tempi, spedito via fax e rimbalzato nelle agenzie giornalistiche di tutto il mondo. Poco dopo ricompariva in un teatro rock di Salisburgo, in uno spettacolo intitolato “Resurrezione”.
Nel Concorso di Ginevra del 1946, sedicenne, suona un Beethoven impressionante, con la sicurezza d’un maturo leone della tastiera, quasi una sintesi della scuola tedesca e austriaca novecentesca. La giuria capisce subito di trovarsi di fronte a un pianista fenomenale. La sua carriera è folgorante. L’interpretazione del suo Beethoven è di levatura storica, il suo Mozart incantevole (ed esageratamente ornato).
Friedrich Gulda – Beethoven – Waldstein Sonata op. 53 – Allegro con brio
Dopo una sua serata chopiniana, lo specialista Jorg Demus sussurra a un ammutolito Paul Bakura Skoda: “È meglio fare le valigie”. Le sue performance sono acclamate, richiestissime, imperdibili.
Nei tardi anni Sessanta rivolge altrove i suoi interessi. Mescola generi musicali, la dance che proviene dalle discoteche di Ibiza e sue sensibilissime trascrizioni dalle Nozze di Figaro, Clementi e Donna Summer, il jazz. Amplificatori a tutto volume, papalina variopinta, capigliatura hippy, piede destro che picchia i quattro quarti sul palco, occhialoni dalle stanghette attaccate con lo scotch.
Diventa la scheggia impazzita della musica classica, il monello, il giullare miracoloso, lo zio mattacchione. Il divo al contrario: applaude il pubblico, offre omaggi floreali e aperitivi ai presenti, supplica gli amici perché gli girino le pagine degli spartiti.
I suoi concerti somigliano a strani happening in bilico fra divertimento e trasgressione, noia e lampi di genio. Passa da Mozart al funk, dal Bösenderfer Imperial all’organetto Hammond, da un filologico Bach di diamante a personali velleitarie spropositate vacue creazioni. Completa gli show con passeggiate e ameni discorsetti, sfilata di belle ragazze, balletti di cubiste abbastanza svestite, numeri degni di studi televisivi giapponesi. Un circo Barnum delle sette note, dove lui è più domatore che clown.
Rigorosamente abbigliato con cuffietta di lana colorata in testa, pantaloni usciti dalla bocca di un cane, maglione scuro spiegazzato, Rolex d’oro al polso. Pagliaccio triste che tocca le corde del tragico.
Lottatore che scuote le partiture come un pero, da cui scendono ogni volta suoni vari e compositori resi irriconoscibili. Ai suoi concerti nessuno conosce in anticipo cosa cadrà dai rami: frutti acerbi, un nido, un vecchio pallone sgonfio impigliato tra le frasche.
Reagisce alla musealizzazione del recital solistico, combatte la proclamata morte del concerto tradizionale. Capisce che il rito mistico del pianista istituzionale (teatro, inchini, penombra, bis, inviti, recensioni, incisioni) è finito da decenni. Non è il solo a esserne consapevole. Glenn Gould da vent’anni si è autorecluso, dedicandosi esclusivamente alla registrazione; Benedetti Michelangeli ha quasi smesso di esibirsi in pubblico e quando lo fa è solo per officiare a una cerimonia sacrale.
Teme di finire nell’accademismo. La sua spietata lucidità gli suggerisce vie insolite. Diventa iconoclasta, taglia i ponti con la tradizione. Non è un esibizionista timido, che sotto l’impermeabile indossa mutande e calze: quei pianisti che nel programma piazzano il pezzo famoso, strizzano l’occhio a tango, canzonetta, minimalismo, interculturalismo. Gulda è più radicale. Vive di annessioni, capricci, stravaganze, umoralità. Ne fa arrabbiare alcuni, ne educa cento.
Luci accese, riceve le ovazioni a gambe incrociate, improvvisa cadenze quando capita (in pratica, quasi ovunque), suona solo i tempi che gli piacciono, accetta i consigli del loggione. Non disdegna sax baritono, clavicordo, flauto dolce; maneggia computer, mixer, elettronica. Sbatte sul muso dell’ascoltatore i soggetti di una Fuga di Bach come fossero schiaffi. Rallenta e accelera a piacere. Sovverte le indicazioni d’autore. Eccita i fraseggi, indugia su corone peccaminose. Sensualità matura, la sua, adolescenziale libertà.
Guarda la tastiera come un motore fermo alle strisce e sgomma sui rumori del pubblico. Generale dell’esercito tastieristico di Arlecchino. I suoni estranei lo scatenano. S’incaglia in improvvisi vuoti d’aria, provoca vibrazioni anomale. In “Du und i” (sua ineffabile composizione) suona, dondola, canta, in un imbarazzante e chiassoso pianobar. Inventa serate indefinibili, dove alterna momenti di sublime poesia (Debussy, i beethoveniani tempi lenti), dominio virtuosistico totale (Prokofiev), improvvisazioni “Vecchia Vienna”, cadute di stile.
Friedrich Gulda & Chick Corea
Chiama a sé grandi jazzisti (Chick Corea), duetta con loro: lui si diverte un sacco, loro fissano l’orologio in continuazione perché non ne possono più. Fa musica: ora con la maiuscola, ora tra le virgolette. Uno dei pianisti più imprevedibili e mostruosi che il Novecento abbia prodotto: manualità infallibile, cervello finissimo, memoria prodigiosa, sangue freddo, sensibilità estrema. Le contraddizioni da lui sollevate rimangono scoperte, i problemi insoluti. Ulteriore segno della sua paradossale eversiva grandezza.