Nell’inverno del 1971, proprio quarant’anni fa, tre giovanotti veneziani caricavano strumenti e spaghetti su un furgone e si chiudevano in una baita di San Boldo, sulle pendici delle prealpi bellunesi. Erano musicisti, un mestiere che a quei tempi aveva ben poco di remunerativo e tanto di avventuroso. I tre restarono in clausura per un mese. Ne uscirono con uno dei più bei dischi della musica rock, “Collage”.
I giovanotti avevano un nome: Le Orme. Con quel disco la musica italiana entrava in un’altra epoca: non più canzoncine, ma suite, rock e musica classica che si sposavano, testi importanti e non banali, due capolavori assoluti (Cemento armato e Sguardo verso il Cielo) che alternavano uno sguardo impressionato dai cambiamenti del mondo a un forte senso della religiosità (“Uno sguardo verso il cielo/ dove il sole è meraviglia/ dove il nulla si fa mondo/ dove brilla la Tua luce”). Come è successo il tutto? Da dove sono nate quelle canzoni? Chi erano quei musicisti? È Tony Pagliuca, tastierista delle Orme e colonna portante della band con Aldo Tagliapietra, a raccontarci i segreti di quella nascita.
Pagliuca ci puoi raccontare come è iniziata l’avventura di “Collage”?
Difficile ricordarsi tutto. Partiamo dicendo che ero un abruzzese trapiantato a Mestre. Tagliapietra e Dei Rossi, invece, erano di Murano e di Burano, ragazzi della Laguna con la passione per la musica. Per quanto mi riguarda, poi, è colpa del babbo se ho cominciato a suonare, perché lui mi regalò il mio primo strumento, una fisarmonica, quando avevo 16 anni.
Quindi non sei un pianista “prodigio”, uno di quelli che a 8 anni sono già con le mani sulla tastiera…
Per niente. E anche Aldo Tagliapietra e Michi Dei Rossi erano più o meno nelle mie condizioni. Poi la passione ci ha preso e ci siamo trovati a suonare insieme per vie diversissime fino a centrare il nostro primo successo nel ’68, con Senti l’estate che torna e con “Ad gloriam”, il primo longplaying uscito con il nome delle Orme, ma riferito alla band in formazione a cinque musicisti. Insomma eravamo fortemente all’opera ed eravamo i primissimi: con noi, in Italia, c’erano solo i genovesi New Trolls.
L’inizio del rock italiano è legato all’asse Venezia-Genova?
Sì, noi insieme avevamo buttato il primo seme del rock all’italiana. Avevamo i capelli lunghi e interpretavamo musica nostra, portavamo ritmi, nuove costruzione delle canzoni, freschezza dei testi, strumenti suonati con una certa libertà. Prima c’era solo la melodia e Claudio Villa, la canzone napoletana e Fabrizio de André, grande, ma non rock. E noi avevamo voglia di tutto, di provare, di essere qualcosa di nuovo…
Per la stessa voglia nel ’69 ti lanci nel viaggio che ti cambia la vita?
Sì, a 23 anni parto per Londra per conoscere Armando Gallo, giornalista che scriveva per "Ciao 2001", il primo celebre giornale di musica giovanile. Sapevo che era quella la città in cui vivere e infatti con lui ho vissuto il mese più importante della mia vita: ogni sera eravamo a un concerto, tra il Marquee e lo Speak Easy, locali leggendari dove ho visto decine di rockbands, dai Caravan ai Focus.
Quando sono tornato, dopo un mese, ero in trance e per settimane ho cercato di raccontare ad Aldo e Michi – perché nel frattempo le Orme erano diventate un trio – cosa accadeva fuori dai confini italiani. Finché, nell’estate del ’70, abbiamo preso a noleggio un furgone e siamo andati a vedere il Festival dell’Isola di Wight. Era l’agosto del ’70 e noi arrivammo lì senza sapere di aver l’opportunità di assistere a qualcosa di unico: i Doors e Jimi Hendrix, Dylan e gli Who, i Moody blues, Jethro Tull ed Emerson Lake and Palmer.
Quale è stato lo show indimenticabile del Festival?
Senza dubbio quello di Rory Gallagher. Suonò due ore e poi, stremato e senza più un grammo di energia, tornò per fare altri 3 o 4 bis, con la gente che non lo voleva lasciare andar via, trovando non so dove le energie per suonare altri venti minuti. Mai visto nulla di simile…
E voi eravate lì, tra i seicentomila: quali sensazioni?
Eravamo arrivati con un furgone dopo quasi due giorni di viaggio, mescolati tra la folla di questi ragazzi che si facevano di tutte le sostanze possibili, mentre noi non sapevamo neppure che esistesse qualcosa che si chiamava droga. Divertente ma anche un po’ imprevisto.
Niente droghe per voi?
Eravamo partiti da Mestre carichi di spaghetti e di prosecco. Intorno a noi fumavano di tutto e si impasticcavano, noi aprivamo bottiglie di vino bianco. Quindi, fortunatamente no, niente droghe. Abbiamo iniziato a far musica senza usarla, non ne abbiamo mai sentito il bisogno e ne siamo rimasti lontani. All’Isola di Wight ho dato il meglio di me con il prosecco.
Tornati dal Festival è cominciata l’avventura di "Collage"?
Esatto, ed è iniziata la fase più creativa della nostra esperienza. Avevamo già delle canzoni abbozzate e non ancora pronte. Durante l’autunno-inverno del ’70 abbiamo lavorato diversamente da prima, ci trovavamo più intensamente e poi, proprio 40 anni fa, siamo andati in ritiro nella baita di San Boldo, sopra Vittorio Veneto. Abbiamo affittato una casa isolata, noi tre da soli con il tecnico del suono e siamo rimasti lì circa un mese. Giorni stupendi: noi tre insieme, tra strumenti musicali, vecchi registratori e nuove canzoni. Un clima stupendo, di curiosità e goliardia, di gusto di vivere insieme e creare, tra spensieratezza e sorpresa per ciò che stavamo facendo.
Era così nuova l’idea del ritiro artistico?
Scherzi? Era tutto nuovo. Il ritiro, lo stile delle canzoni, l’idea di sviluppare delle suite, invece che solamente un susseguirsi di strofa e ritornello. Le canzoni fino a quel punto erano leggere: con "Collage" noi stavamo entrando in un altro piano.
Cosa succede dopo il ritiro a San Boldo?
Siamo andati a Milano da Gian Piero Reverberi, che aveva già fatto la produzione dei New Trolls: era il migliore in circolazione e volevamo lui come produttore. Con Gian Piero abbiamo iniziato gli arrangiamenti veri e propri e la produzione allo studio Sax. Quanto è stato importante Reverberi? Tantissimo. Noi volevamo rompere le forme e lui era l’uomo che ci ha aiutato a farlo. Con lui abbiamo scelto di introdurre Scarlatti nel pezzo d’apertura e poi tante altre soluzioni, come il pianoforte di Cemento Armato.
"Collage" esce poi nell’autunno del 1971: è subito un successo?
Guarda, quando il disco va nei negozi, Roberto Galanti, grande discografico della Phonogram, fa una festa enorme a Milano per lanciarlo con i negozianti i distributori. Ma nel frattempo io ero già andato a Roma con una copia della registrazione per farla sentire ai conduttori della trasmissione radiofonica "Per voi giovani" che se innamorarono subito. Così che prima ancora dell’uscita del disco, in radio girava quasi tutti i giorni Sguardo verso il cielo. Insomma, la risposta è: Si, è stato subito un successo.
E a questo punto uno si immagina che dopo il disco arrivino subito i concerti, le tournée, giusto?
Ma quali concerti… Non c’era l’industria dei concerti, l’organizzazione, le strutture. Non c’era proprio nulla, nemmeno i fari per illuminare il palco. Noi, che siamo stati tra i primi a suonare live, ci siamo fatti costruire su misura i fari, i cavi per i mixer, gli amplificatori. Vabbé, i concerti arrivano più tardi, ma nel frattempo le Orme non rimangono certo con le mani in mano.. Certo arrivano gli altri dischi: "Uomo di pezza", "Felona e Sorona", "Florian". Arriva il quarto componente, prima la chitarra di Tolo Marton, poi quella di Germano Serafin. Poi arriva anche la separazione tra me e Aldo e poi i giorni nostri.
Nel novembre scorso le Orme han fatto una reunion applauditissima al festival del progressive di Roma. Sta per accadere qualcosa?
Diciamo che con Aldo ci siamo ritrovati dopo 25 anni ed è stato emozionante. Il 25 febbraio faremo un grande concerto al Teatro Comunale di Vicenza. Non saranno le Orme in scena, bensì Tagliapietra, Pagliuca e Marton insieme. Sono certo che sarà un momento di grande musica per noi e per chi verrà a sentirci. E non ci dimenticheremo di certo dell’anniversario di "Collage".