Ci sono alcune delle canzoni di Luca Carboni che hanno il destino di rimanere nel tempo nell’elenco delle migliori della produzione italiana nel loro mix di melodia e autenticità. Il terreno su cui poggiano i piedi di questo autore romagnolo è quello del cantautorato pop italiano, mai troppo spigoloso, mai troppo provocante negli arrangiamenti e mai troppo ardito nelle soluzioni, come se il suo segreto fosse quello di farsi ascoltare da tutti, anche da quelli che “… io il cantautorato italiano non lo reggo”.
La confezione, sempre morbida, potrebbe far sottovalutare certe sue canzoni, a partire da quella cosa d’immenso struggimento che è Silvia lo sai, che con la dolcezza di una conversazione tra giovani-adulti, va a parare nell’incommensurabile domanda di Luca che si buca ancora. Canzoni che contengono sprazzi geniali, come quella sul quel fisico bestiale che ci vuole per resistere ai colpi della vita o quel Sarà un uomo in cui si spera non venga mai il tempo in cui non sia più possibile essere curiosi. Passato indenne dalla crisi del nuovo millennio, che ha visto il silenzio di molti autori della sua generazione, riuscito nell’operazione magnifica di Musiche ribelli (in cui reinterpretava titoli come Ho visto anche degli zingari felici e L’avvelenata), Carboni arriva oggi sul mercato dei sogni e delle italiche melodie con Senza titolo, cd che giurerei essere uno dei dischi più sinceri e diretti di questa annata tricolore, che pure vede in questa fine di 2011 il ritorno di Ivano Fossati, Antonello Venditti e Lucio Dalla.
Dieci canzoni con alcune memorabili confessioni (il bel giro di Lacrima e l’intensissima Madre: “chissa che faccia farai quando mi vedrai, quando ti vedrò”), inni d’innamorato (Cazzo che bello l’amore), immagini da vita di provincia (Riccione, Provincia d’Italia), che ci restituiscono in splendida forma un autore a otto anni dal suo più recente album di inediti, Le band si sciolgono. A differenza di un tempo oggi il cantautore bolognese è andato a vivere sull’Appennino bolognese. Ed è padre di un ragazzino di dodici anni.
L’ultima volta che l’ho intervistato è stato un secolo fa: era il ’92 e Carboni dava vita con Jovanotti a un tour che, fatte le debite proporzioni, aveva avuto per la generazione dei diciottenni di allora lo stesso senso della leggendaria tournée Dalla-De Gregori alla fine degli anni Settanta. Ora ci ritroviamo nella strana calura di una Milano di inizio ottobre. Sul suo nuovo disco, Senza titolo, c’è la sua foto in compagnia di suo figlio. Tra un anno Carboni avrà cinquantanni. Per ora non ci pensa e si gode la sua casa tra i boschi. Il resto si vedrà. Nel frattempo ci ha rilasciato questa intervista.
Luca, con un disco chiamato Senza titolo cosa vorresti suggerire a noi poveri ascoltatori? Incertezza o eccesso di idee?
Ci sono dischi in cui c’è una canzone dal titolo forte, oppure un’intuizione che sintetizza tutto il lavoro. Questa volta mi sentivo che non c’era niente del genere. Mi piace di più l’idea che la gente entri spontaneamente nel racconto senza trovare una parola che sintetizzi o precluda o dia una guida. Quindi lasciamo la libertà che l’ascoltatore si faccia il suo viaggio.
Iniziamo allora da queste tue parole: questo è un disco di viaggio. Ci sono proprio canzoni che lo dichiarano direttamente: Non finisce mica il mondo e Fare le valigie…
Direi che è un disco di strade, percorsi e luoghi. La prima canzone – Senza strade – è il manifesto dell’album e in realtà cerca di sviluppare il concetto che c’è tanto da scoprire. Ovunque e su tutto.
Allora proviamo a precisare: possiamo dire che più che un disco di viaggio è un disco che invita a prendere il largo e superare le idee scontate sulla vita?
Direi che son d’accordo: non fermiamoci, dobbiamo andare avanti. Pensiamo solamente al fatto che poco più di ventanni fa Bill Gates non credeva ancora alla forza di Internet. Ecco: i nostri figli entreranno in un mondo con ancora tanto da inventare. Certe canzoni del disco raccontano che anche a livello interiore occorre ascoltare la vocina che ci spinge avanti, che non è già tutto saputo e che non dobbiamo aver paura: nel lavoro, nell’amore, nel sociale, nella politica, è tutto da scoprire.
Qualche mese fa il Censis ha descritto l’Italia come un Paese che ha esaurito il desiderio. Il tuo disco fa parte già di questo tentativo e di questa necessità di scuotersi?
Non so bene cosa intendano dire oggi i sociologi, ma son certo che i giovani devo riscoprirsi protagonisti. Credo ci serva una società che deve mettere le persone nella condizione di credere alle possibilità. Di sicuro oggi il clima sociale e i costumi circolanti ci stanno togliendo il modo di desiderare. Tutto sembra già realizzato e crediamo di vivere una vita organizzata dagli altri, dal sistema, dai telefonini.
I titoli di questo album sembrano indicare tutte canzoni “positive”: finalmente un disco dve non trionfa la tristezza, la lacrimuccia, l’indignazione o la critica a qualcosa o qualcuno?
Si è un disco positivo, anche se a dirla tutta c’è una canzone decisamente negativa ed è Riccione-Alexanderplatz, sincero atto d’accusa alla mia generazione, a noi cinquantenni che sembravamo così pieni di vita e invece ci siamo seduti, nascosti tra un aperitivo e una solitudine. Ci siamo ritrovati poveri di idee, di posizioni, di alternative sociali e politiche. Siamo una generazione sparita, ognuno con la propria separazione familiare alle spalle.
Ma i giovanissimi di oggi non dicono che le generazioni che li hanno preceduti erano più ricche di speranza ed energia?
Non vale per noi cinquantenni, che siamo diventati i veri pantofolai d’Italia, magari travestiti da finti trasgressivi. Cinquantenni impauriti da quello che non è stato e da quello che potrebbe accadere.
Una delle tue nuove canzoni, Liberi di andare, è una provocazione in senso opposto: meglio essere “liberi di fare il bene e il male”…
Una provocazione perché quando vedo tanti ragazzi ingessati tra famiglie iperprotettive, videogiochi e telefonini mi viene da dire: giocati la vita e vedi cosa accade. Mi è venuto spontaneo come un invito a scontrarsi con le cose del mondo.
Onestamente la cultura della canzone italiana oggi evita accuratamente ogni scontro con le cose del mondo. Tanto per dire: una canzone come Silvia lo sai avrebbe mai avuto spazio in uno dei talent show contemporanei?
Ma è la società intera che ha paura di scontrarsi con le “cose della vita”. Per venire a XFactor, invece, credo che quella canzone oggi non avrebbe alcun futuro, ma non ne voglio fare una colpa all’ambiente discografico che cerca di resistere come puo’. Ho più che altro la sensazione che siamo un po’ tutti con il fiato corto e che alla fine l’industria s’arrabatta come può, con i mezzi a disposizione e con quel che arriva. Non a caso quando si parla di qualità musicale si finisce sempre a parlare di De Andrè o Gaber, che sono ancora oggi considerati i più grandi.
Questo tuo nuovo disco è intenso, fresco, ben suonato e arrangiato. Ma al di la della confezione cosa speri possa arrivare a chi lo ascolta?
Mi piacerebbe che emergesse il fatto che nella realtà bisogna starci senza paura. E anche senza avere un fisco bestiale: la vita in fin dei conti è alla portata di tutti
(Walter Gatti)