Nascere dalle parti di Pavia negli anni Cinquanta significava crescere respirando nebbia, sentendo il profumo del vino dell’Oltrepo, perdendo lo sguardo tra i pioppi e le risaie. Massimo che ti poteva capitare era passare una giornata in treno, andando in stazione e scegliendo se puntare verso la vicina Milano o la più lontana Genova. «Nascere nel pavese è quello che è accaduto a me», mi racconta Fabrizio Poggi, musicista pavese con il pallino della musica roots americana, «e quindi per trascorrere il tempo o giocavi a pallone, o andavi a bere al bar del biliardo. Oppure imparavi a suonare uno strumento. Per noi che anche Milano era una città lontana a un certo punto sono arrivati libri, dischi e film che parlavano di un altro mondo, di un’altra cultura, roba affascinante che abbiamo iniziato a chiamare America. Io ho lasciato la scuola da giovane e sono andato a lavorare in fabbrica e quando ascoltavo certi dischi e leggevo certi romanzi ho iniziato a pensare sono nato nel posto sbagliato. E questo, invece che rattristarmi, mi ha messo in movimento… Sono gli scherzi che ci fa il Signore».
Direbbe Celentano: dai suoi anni sbarbati, Fabrizio ne ha fatta di strada e oggi, anno domine 2011, il ragazzo pavese che non aveva voglia di stordirsi di bonarda in un qualche bar della Bassa, ha già pubblicato una dozzina di album, tra cui il recentissimo Live in Texas, registrato con la sua ormai storica band, i Chicken Mambo. Nel cd ci sono dodici titoli, con qualche classicissimo (Jesus on the Mainline), alcuni dei suoi pezzi più belli (tra cui Hole in your soul, Save me Jesus, I whish to be in Texas), ma soprattutto con una parata di musicisti da far individia, da Flaco Jimenez alla blues-woman Marcia Ball.
Bianco come può esserlo uno nato nella patria delle mondine, Poggi è uno di quegli europei che ogni tanto si fanno amare dai più veraci bluesman del sud e dai quei musicisti che vivono tra Austin e New Orleans. Sono andato a farmi raccontare da lui stesso quale è il segreto di quella comunione artistica che rende la provincia pavese così vicina allo stato della stella solitaria…
Poggi, non sarà una novità, ma questo Live in Texas dimostra ancora una volta che “anche i bianchi possono cantare il blues”…
Certo, ma è inutile dircelo tra noi bianchi, occorre sempre sentire cosa dicono loro, i padri, i fondatori. E su questo tema racconto un aneddoto personale. Nel gennaio di quest’anno ho avuto la fortuna di esibirmi in Germania con i Blind Boys of Alabama. Stavamo cenando e ho chiesto a Jimmi Carter, un ragazzino di 85 anni che canta da quando ne aveva otto, «dimmi onestamente cosa pensi della mia musica, delle cose che ho inciso». E lui mi ha risposto, «guarda Fabrizio, io sono cieco dalla nascita quindi a me hanno spiegato cosa significa essere bianco o nero o finlandese. Non vedo niente e quindi credo a quello che mi dicono, ma soprattutto credo a quello che mi arriva al cuore. Così Fabrizio io non ti vedo, ma so che quando tu suoni l’armonica con noi, sei uno di noi, usiamo la stessa lingua». Ecco questo secondo me è il blues, questa è la musica delle tradizioni americane. Non una questione di pelle o di tecnicismo, ma qualcosa che si trasmette da un cuore all’altro…
Nel libretto che accompagna il tuo nuovo disco racconti un bellissimo istante al termine di una esecuzione di Hey Old Mama, una delle tue canzoni meglio riuscite…
Episodio semplice, ma che mi accompagnerà per sempre: al termine di questa canzone, in un localino del Mississippi, una signora di colore di un’ottantina d’anni mi ha detto «Hey ragazzo, questa canzone ha toccato il mio vecchio cuore». L’ho guardata e ho capito che era uno dei momenti più commoventi della mia vita.
Tu hai avuto a che fare con tanti nomi leggendari della musica degli States, da Eric Bibb a Jerry Jeff Walker, da Billy Joe Shaver a Garth Hudson. Ma cosa permette a questi musicisti a loro modo leggendari di collaborare con un musicista italiano?
Penso sia solo la passione che ci può portare fino a loro. Non ho pagato nessuno dei nomi che hai citato, pensa che ai Blind Boys gli ho portato solo delle scatole di baci di dama.
L’unico modo per lavorare con questi artisti è conquistarli attraverso la musica, cercando di rimanere me stesso. Loro vedono che io sono quello che suono e dicono: questo non recita una parte, non è un attore. Non a caso non ho mai cercato di togliere il mio accento italiano al mio pessimo inglese.
Ma l’inizio di queste collaborazione quale è stato? Chi ha dato l’avvio al tutto?
L’inizio è stato Zachary Richard, fantastico fisarmonicista cajun che mi ha fatto capire che il segreto dei grandi musicisti americani non è il divismo, ma l’autenticità. Quando abbiamo cominciato a parlarci non esistevano i computer e le mail e così ci siamo scritti via fax. Aveva sentito alcune cose fatte da me nei primissimi dischi e mi scrisse «hai colto lo spirito di New Orleans». Gli scrissi: «se vuoi raggiungerci a Milano potresti suonare qualcosa con noi». Dopo un anno – avevo perso qualsiasi speranza di poterlo coinvolgere – mi rispose: «sto arrivando; l’unica cosa che voglio è mangiare italiano x tre giorni». Prese il treno da Parigi per venire a registrare con noi.
Fu lui ad aprirvi le porte dell’America?
Il suo nome ci ha dato credibilità oltre ogni previsione. Quando quattro anni fa abbiamo registrato Mercy, siamo andati a Woodstock per registrare con Garth Hudson. Io ero emozionatissimo, perché non accade tutti i giorni di lavorare con uno dei musicisti che hanno fatto la storia del rock, ma al termine del lavoro lui continuava a chiedeva a mia moglie «ma Fabrizio è contento?».
E in questo disco dal vivo c’è un’altra leggenda del sound americano, Flaco Jimenez.
Che è una sorta di divinità sotto forma di fisarmonica. Un uomo molto particolare e riservato, che vive a San Antonio legatissimo alla sua famiglia. Ha accettato di lavorare con me perché gli è piaciuta la carica spirituale degli ultimi miei dischi. Mi dice sempre che la musica c’entra con la memoria di chi ci ha preceduto.
Per questo è lui la marcia in più di un classico gospel come Jesus on the mainline?
Lui ha dato uno spirito nuovo alle canzoni del disco, proprio perché ci ha costretti a una maggiore intensità. Con lui sono entrato ancor più dentro la magia misteriosa del blues e del gospel perché non possiamo negare che c’è qualcosa nella tradizione afroamericana di unico.
Anche quando i bluesman parlano di sesso o di tragedie hanno dentro una profondità che è difficile da trovare. C’è qualcosa in fondo in fondo, che è in grado di guarire le tristezze. Qualcosa che è in stretto contatto con il divino.
C’è una traccia di forte religiosità nelle tue canzoni. Quando introduci Save me Jesus dici sempre che le preghiere non si possono spiegare…
Credo fermamente che noi apparteniamo tutti alla stessa famiglia terrena e la musica è uno di quei fili che ci legano verso il cielo. Se sei disposto a vivere la vita come un viaggio, la preghiera è il tuo bagaglio fondamentale…