La conversione (sarebbe forse più opportuno parlare di “ritorno”) di Liszt al cattolicesimo è fenomeno che, come ogni mutamento radicale dell’animo, nella sua essenza sfugge allo sguardo umano ma che, nel caso in questione, ha lasciato segni profondi nell’opera del musicista. Non stiamo qui parlando della produzione strettamente sacra (pur importante sia numericamente che qualitativamente) quanto piuttosto di un tratto che, lentamente, diviene per così dire consustanziale allo stile del tardo Liszt: la semplicità.



Scorrendo il corpus compositivo del musicista notiamo che il funambolo della tastiera, il virtuoso dotato di stregonesca abilità digitale poco a poco lascia il posto al compositore puro, non più pressato dall’esigenza di avere costantemente un repertorio adatto a sedurre il pubblico, a soggiogarlo con cascate iridescenti o con eclatanti eruzioni sonore.



In tal senso il brano che proponiamo al lettore è emblematico.

Composta nel 1877 la breve pagina d’album intitolata Sancta Dorothea è l’istantanea perfetta del “tardo stile” lisztiano perché, pur non presentando le asperità armoniche di altre più celebri opere dell’ultima produzione dell’ungherese, conserva un tratto di gioiosa purezza, di diafana dolcezza che proprio nell’estrema povertà dei mezzi trova l’ideale veicolo d’espressione.

Per comprendere a fondo il brano riteniamo sia utile conoscere, almeno per sommi capi, la storia della Santa cui la composizione rende omaggio.



Santa Dorotea vive a cavallo fra III e IV secolo (la sua morte risale con molta probabilità al 311) e viene martirizzata perché si rifiuta di compiere sacrifici agli dei.  Narra il Passio che, per convincere la giovane a rinnegare la fede cristiana vengono inviate due sorelle apostate, Callista e Criste, che invece, segnate dall’incontro con Dorotea, ritornano alla fede della Chiesa e per questo vengono condannate al rogo. Ulteriore episodio riportato dalle cronache è quello di Teofilo, un giovane che la Santa incontra sulla via del patibolo e che, schernendola, le dice: “Sposa di Cristo, mandami delle mele e delle rose dal giardino del tuo sposo”.  Dorotea accetta la sfida e, mentre si trova assorta in preghiera poco prima del supplizio, ha l’apparizione di un bambino con tre rose e tre mele tra le braccia.

La santa lo invita dunque a portare il dono a Teofilo che riceve l’inaspettata visita proprio mentre sta narrando la bravata agli amici. Siamo in febbraio mese in cui certamente le rose non fioriscono e il giovane, sconcertato dal miracolo di cui è stato testimone, improvvisamente si converte ed afferma che il Dio dei cristiani è vero ed unico.  Gli amici, vista la sua tetragona resistenza a ritornare alla fede pagana, lo denunciano ma Teofilo non abiura, venendo così torturato ed ucciso. E’ venerato il 6 febbraio insieme a Dorotea.

Il brano di Liszt segue un percorso musicale che mostra evidenti assonanze con la leggenda agiografica.

Vediamo quali.

L’inizio, con i suoi delicati arpeggi, crea da subito un’atmosfera di incorporea leggerezza, di intatta purezza che possiamo considerare come una sorta di “doppio” musicale di Dorotea.  In quest’ottica il semplice, ingenuo tema portante dell’intero brano [0’13”] è il “personaggio” musicale che ci conduce per mano nel radioso mistero della santità.

Il santo è, in ultima analisi, imago Christi, immagine del Verbo fatto carne che, come ci insegna San Paolo, “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome”.

Ora, ad uno sguardo attento, la parabola del pezzo lisztiano – e, metaforicamente, quella della dedicataria – è esattamente quella descritta dall’Apostolo.

Dopo la prima enunciazione infatti il tema portante ritorna ma all’ottava inferiore [0’54”], quasi a simboleggiare l’umiliazione di Dorotea, soggetta al tentativo di conversione operato dalle due sorelle apostate e allo scherno di Teofilo.  Da qui, attraverso un percorso che porterà il tessuto musicale a sprofondare ulteriormente nella regione grave del pianoforte, assistiamo alla lenta, inesorabile anabasi che ci condurrà alla terza ed ultima ripetizione della melodia [1’57”], ormai depurata da ogni scoria mondana e, per così dire, circonfusa di grazia ultraterrena.

Quasi settant’anni dopo, inconsapevole, T. S Eliot avrebbe parlato della stessa humilitas e dell’identico esito nel finale di East Coker, secondo dei Quattro Quartetti:

Dobbiamo muovere ancora ed ancora

Verso un’altra intensità

Per un’unione ulteriore, una più profonda comunione

Attraverso buio, freddo e vuota desolazione,

Il grido dell’onda, il grido del vento, le acque immense

Della procellaria e della focena.  Nella mia fine è il mio principio.

Ferenc Liszt: Sancta Dorothea
Mauro Bertoli, pianoforte