Ogni volta che si ascolta un nuovo disco di Tom Waits (l’ultima volta è accaduto nel 2004, con Real Gone, anche se la torrenziale raccolta di Orphans: Brawlers, Bawlers & Bastards, nel 2006 contiene molte cose inedite) ci si preoccupa subito di fare raffronti. Ci sarà qualcosa all’altezza di Rain dogs? Tornerà mai alla colloquialità spassosa di Nighthawks at the Diner? Ha ancora un senso contemporaneo lo sperimentalismo di Swordfishtrombones e di Bone Machine?
Mah, che noia i raffronti con il passato che non vuol passare (soprattutto per chi ascolta e – forse – prova a recensire). Proviamo ad ascoltare allora da absolute beginners questo Tom Waits fresco di stampa, questo Bad As Me, appena uscito con l’ormai abituale Kathleen Brennan (collaboratrice dal 1983, ma soprattutto moglie di Tom e madre dei suoi tre figli) nel ruolo di co-produttrice.
Che ha da dire il buon Waits oggi, a grandi e piccini, a un mondo che sacralizza Amy Winehouse, ma che poi manda giù i bocconi inquietanti di Rihanna o di David Guetta? Il vecchio Tom ha una considerazione per tutti, una constatazione: non ci sono buoni, oggi. Questo è il succo: nessuno può chiamarsi fuori da una realtà che pare impazzita. Siamo tutti dei poveri uomini, cuori in cerca di una pezza calda che possa lenire le ferite; vagabondi più abituati ad abbandonare che ad essere ritrovati; amanti furtivi, disposti a ogni menzogna purché qualcosa, oltre all’alcool, sia in grado di simulare quel calore che si brama più di ogni cosa.
I soliti temi che Waits frequenta dai tempi di Virginia Avenue e Drunk on the Moon, Blue Valentines e Midnight Lullaby, quando ancora gli anni Settanta squadernavano le loro magnifiche illusioni. Sono temi di ieri e forse di sempre, raccontati da un uomo e musicista di oggi, potentemente contemporaneo, un sessantaduenne che ha avuto la forza di mettere su disco canzoni ricche, senza autocompiacimento, senza troppo autocitarsi, capace di velocità, efficacia, bei suoni, arrangiamenti essenziali.
Un musicista soprattutto capace di scrivere ancora ottime canzoni, come dimostrano già i primi titoli del cd, che si apre con Chicago, un pezzo a metà tra l’avantgarde e il blues, con una band pazzesca (Larry Taylor, Marc Ribot, Keith Richard, Clint Maedgen, Charlie Musselwhite, più il figlio di Tom, Casey Waits alla batteria), canzone sull’emigrazione dei neri verso la città “dove il Signore ci darà ciò di cui abbiamo bisogno”. Canzone dalle idee e dai ritmi forti, ma che già dice la direzione che ha in mente Waits: chiare e semplici melodie, pezzi brevi, senza troppo indulgere.
Asciutto, essenziale, ricco come da tempo non si sentiva, il disco procede così, veloce e diretto, confermando la vena ruvida in Raised Right Men che potrebbe (ma non troppo) essere un pezzo in cui Nick Cave incontra i Platters, mentre Get Lost è uno psicho-rockabilly e Talking at the Same Time è un allucinata marcetta piena di visioni malate e violente, con gente “che ignora i segni”, troppo occupata a parlarsi addosso e nello stesso momento.
Ma se questi sono i pezzi “introduttivi” del nuovo disco, è con l’arrivo di Face to the Highway, che ci si immerge nel mistero del lirismo waitsiano, canzone che potrebbe far vacillare anche il feeling più roccioso. In un gioco di destini e vocazioni (“L’oceano cerca un marinaio/ la pistola desidera una mano/ il denaro vuole uno spendaccione/ e la strada vuole un uomo/ Ho voltato il viso verso l’autostrada/ e ti ho girato le spalle”) è uno dei pezzi simbolo, notturna e oscura, con un ritornello da profeta tra chitarre e campane nel deserto, un Giovanni Battista nel tetro mezzo dei nostri tempi. Cantata con brividi, è impreziosita tra le altre cose dal violino di Danw Harms, parente di Tom e primo violino della San Francisco Opera Orchestra, nome apparso negli ultimi lavori del cantautore da Alice in poi.
Ancora una volta l’etica dei losers, l’immaginario dell’andare, dell’infinita prateria o strada che attende i poveretti dei nostri come degli altri tempi, è quella che Waits interpreta con intensità indimenticabile, visto che anche la successiva Pay me (“Mi hanno pagato perché non tornassi più a casa…”) arriva diritta al cuore, un valzerino sosenuto da fisarmonica, violino e vibrafono. Gli stessi ingredienti che fanno di Back in the Crowd (“Se non vuoi più che queste braccia ti stringano/ se non vuoi più che queste labbra ti bacino/Rimandami nella folla…”) un pezzo struggente, una ballata tex-mex cantata alla perfezione, con quel tono ancestrale che era dell’indimenticato Willy de Ville.
Disco che cresce, brano dopo brano, ma il titolo che emerge sopra ogni altro, lento e fumoso, interpretato dal solo Tom e dal contrabbasso di Marcus Shelby, è un gioco ambiguo d’amore, Kiss me, un jazz-blues rarefatto da softclub, che riporta il vecchio tema dell’attrazione d’amore e della sua necessità di non invecchiare, di non ammuffire nell’abitudine delle cose solite. “Voglio credere che il nostro amore sia un mistero/ voglio credere che i nostri amori siano un peccato/ oh, vuoi baciarmi ancora una volta come fossi uno sconosciuto”.
Le cose non accadono per caso e un disco come questo è frutto di sessant’anni di vita, di quarant’anni di musica, di qualche anno – gli ultimi – di ritrovata pace personale, di senso umano e di pietas. Un giovane che s’accosti per la prima volta a questo cd potrebbe decidere di gettarlo subito nel cestino, oppure di provare ad ascoltarlo, con un briciolo di attenzione: ci troverebbe dentro poesia e citazioni letterarie (Kiss me e Le avventure di un uomo vivo sono due facce della stessa medaglia), jazz e rumorismo, politica e religiosità. Il tutto in una confezione ricca e stimolante, vista la notevole – come suggerito – lista dei musicisti, che oltre a Marc Ribot presenta Keith Richard (Rolling Stones), Augie Meyers (se qualcuno ricorda I Texas Tornados…), Charlie Musselwhite, Les Claypool (Primus) e Fleah (Red Hot Chili Pepper) ai bassi, David Hidalgo (Los Lobos).
Davvero efficace, poi, il lavoro ai sax di Clint Maedgen, membro storico della Preservation Hall Jazz Band di New Orleans, che conferma come Waits si circondi di musicisti orientati a un suono multiforme, tradition oriented, ma con innovazione (altrimenti Ribot non sarebbe mai entrato nel novero).
Siamo tutti cattivi, butta lì Waits in questo disco che probabilmente finisce tra i migliori dell’annata. Waits si confessa con indulgenza, quasi con compassione. Siamo cattivi e precari, di passaggio, come fossimo “l’ultima foglia dell’albero” (ascoltando Last Leaf si alterna il sentimento per la canzone e la notevole consonanza con le “foglie” ungarettiane…).
In Orphans c’era una gospel-songs che pareva cantata da Leadbelly, Lord I’ve Been Changed. Questo Bad as Me fa parte dello stesso mondo. Siamo tutti cattivi, siamo poveretti, peccatori, inaffidabili, mentitori e bisognosi. D’amore. Di baci. Di purezza. Di sangue. Di speranza. Di cambiamento. Di perdono.