In occasione dell’uscita del loro decimo album, “I’m With You”, Giuseppe Ciotta ripercorre la discografia del gruppo californiano. Il terzo album della band: “The Uplift Mofo Party Plan”.
Finalmente, dopo lo scialbo esordio e un secondo album che suonava come un’incompiuta, i Red Hot Chili Peppers si ritrovano in studio – all’alba del 1987 – con la storica formazione originale che li aveva catapultati, quasi cinque anni prima, all’attenzione della scena rock losangelina e di una major discografica come la EMI. Col rientro dell’amico Jack Irons – batterista semplice, ma preciso come un metronomo – i quattro ex-compagni di liceo registrano il loro miglior album fino a quel momento, che gli consentirà d’affacciarsi fuori dagli States, oltre ad esordire nell’ambita classifica di Billboard.
Ma non è tutto rose e fiori: prima della registrazione, il vocalist Anthony Kiedis sprofonda in un’atroce tossicodipendenza, che lo farà allontanare temporaneamente dalla band; il chitarrista Hillel Slovak condivide un destino simile, ma riuscirà a nasconderlo ai compagni; con queste premesse, il produttore Rick Rubin – in seguito stabilmente dietro alla consolle dei peperoncini e delle più grandi produzioni pop-rock degli ultimi vent’anni – rifiuta l’invito del gruppo a lavorare su quello che poi sarà The uplift mofo party plan: “Andai a trovarli nella loro sala prove, per sondare il terreno. Ero accompagnato da alcuni dei Beastie Boys, con cui lavoravo al tempo. Fui letteralmente annichilito dalla forza oscura e dall’energia negativa che riempiva la stanza. Era palese che buona parte della band fosse preda di drammi piuttosto evidenti”. Rubin scappò letteralmente dalla sala prove; fortunatamente, anni dopo, sappiamo tutti come sia finita e come questa fruttifera liason continui ancora…
Col forfait del produttore con cui già allora erano ansiosi di lavorare, i Red Hot assecondano la volontà della EMI e scelgono – per la prima volta – un produttore di professione, non un ex-musicista come nei dischi precedenti: Michael Beinhorn era giovane, ma aveva già lavorato con gente del calibro di Brian Eno e si rivelerà una scelta azzeccata, come il sound brillante, vivo e ricco di dinamiche di questo terzo album testimonierà.
Prima, però, c’è da capire se Anthony fa ancora parte del gruppo. I suoi stravizi rischiano di minarne la carriera, ma si riprende e – grazie a un periodo di disintossicazione lontano da Los Angeles – torna rinfrancato e con dei testi positivi e carichi di passione, i suoi migliori fino ad allora. L’iniziale Fight like a brave ne è un esempio, mentre l’efficace sezione ritmica Flea/Irons crea un groove irresistibile e d’atmosfera festaiola (come il relativo videoclip, disponibile nel dvd What Hits!?). Funky crime dice tutto già dal titolo e finalmente – grazie anche al nuovo produttore – comincia a delinearsi l’originale cifra stilistica del gruppo, quel folle mix di punk/funk/rock/pop che ne decreterà, un giorno, il successo mondiale.
La “punkettona” Me & my friends diverrà un vero e proprio inno del gruppo, suonata dal vivo ancora oggi: il testo è un accorato omaggio all’amicizia, vero collante della band, che ne ha garantito la sopravvivenza a dispetto delle continue difficoltà. Backwoods contiene il meglio dei nostri fino a quel momento: un cantante finalmente in grado di padroneggiare la melodia; un chitarrista, Slovak, dal sound unico e dal tocco figlio della migliore tradizione anni ‘60/’70; un bassista scoppiettante e un batterista che sa convogliarne la dirompente energia; un suono complessivo finalmente all’altezza e una performance su disco degna della carica esplosiva dei loro live act.
Se – dopo questo The uplift mofo party plan – si vanno a riascoltare i primi due lavori del gruppo, pur se ben disposti si stenta a riconoscerlo!
La schizzatissima Skinny sweaty man è l’omaggio del cantante all’amico fraterno Slovak; s’ispira al ricordo delle sue folli danze sulle piste dei club di Detroit, ai tempi dell’augurato ritorno del chitarrista tra le fila del gruppo, pronto a registrare il secondo album: le sonorità – non a caso – riconducono proprio a Freaky Styley, ma con più consapevolezza tecnica.
Behind the sun è il primo vero e proprio pezzo pop (nel senso di grande indole comunicativa) del gruppo e contiene, in germe, ciò che i Red Hot saranno in grado di fare nei loro singoli di maggior successo: melodie ariose, giri di chitarra magnetici, ritornelli accattivanti… Proprio come singolo la band voleva che uscisse, ma una miope EMI bloccherà il progetto, sancendo la definitiva rottura d’intenti col gruppo, nonostante un contratto ancora in essere. Behind the sun ha come tema meravigliose creature marine quali balene e delfini, da sempre amate dalla band, e un paragone – nient’affatto campato in aria – fra la loro intelligenza e quella degli uomini (?) malignamente belligeranti. Il gruppo racconta che il riuscitissimo riff di chitarra di Hillel Slovak venne fuori quasi per scherzo, mentre il talentuoso chitarrista si riscaldava in studio: un’altra conferma di come, in questo disco, il ragazzo con la sei corde avesse trovato una strada spontanea ed efficace per esprimersi; di fatto, la chitarra di Slovak si erge a guidare tutti gli umori dell’album, garantendo un impatto sonoro prima inedito al gruppo.
Subterranean homesick blues di Bob Dylan (!) è l’ennesima cover a rischio suicidio della band, che – invece – la rilegge in una riuscita chiave punk/rap, a conferma che sia proprio quello di Dylan il primo pezzo di cantato/parlato (rap ante litteram) in assoluto: non ce ne voglia il grande Celentano, ma non è stato affatto lui a farlo per primo, bensì il menestrello di Duluth. Party on your pussy (è necessario tradurne il titolo?!) è l’unica concessione di Kiedis – ormai sempre più paroliere d’effetto – ai suoi trascorsi di cantore sboccato delle bellezze femminili, tanto che la EMI ne censurò allora il titolo per un più caustico (ma stupido) Special secret song inside. Efficaci cori da stadio nei ritornelli (elemento ricorrente nel disco), atmosfere giocose e chitarre spumeggianti avvalorano – però – il pezzo.
Dei restanti pezzi, segnaliamo l’eclettica Love trilogy, dal testo avvincente e con una musica che sbanda dal funk al punk, dal rock mainstream allo speed-metal (!): segno evidente della sicurezza e della confidenza musicale raggiunte dai ragazzi fra loro e coi loro stessi strumenti. La conclusiva Organic anti-beat box band è il manifesto programmatico del gruppo in quel periodo: Kiedis si scaglia contro la musica in auge all’epoca, fatta di sintetizzatori, macchine e computer, nulla di umano e tutto programmato. Il suono dei peperoncini qui e in tutto l’album è l’esatto contrario: pulsa d’umanità incontenibile, colorato e sfaccettato come solo la mente e il cuore dell’uomo ispirato sanno essere. La canzone di commiato è la più tecnica e “orchestrata” del lavoro, con sonorità che s’intersecano e s’accavallano: un vero e piacevolissimo baccanale sonoro!
Nella serie Remastered 2003 dell’album, due demo strumentali: Me & my friends e Behind the sun, utili a cogliere la fortunata ispirazione del gruppo per quest’album già nelle sue fasi di pre-produzione.
All’uscita, The uplift… raccoglie i primi – sospirati – consensi un po’ ovunque; la band – sul palco – è irrefrenabile, tanto da sbarcare in Europa con successo e a fianco degli amati Ramones. Talmente amati che i Red Hot si denuderanno (ma guarda un po’, tanto per cambiare!) e sbucheranno sul palco durante lo show dei newyorchesi, con somma costernazione di Johnny Ramone (il duro chitarrista), ma con dolce giubilo di Joey (il carismatico cantante).
Purtroppo, proprio durante questi exploit, la droga torna a far capolino nelle vite di Anthony e Hillel che – durante il tour sempre più tutto esaurito – si erano, invece, ripromessi di darci un taglio definitivo per il bene loro e della band, finalmente lanciata verso il successo.
“Tornati dal tour europeo, atterrammo a Los Angeles e ci salutammo calorosamente. Sapevamo che avevamo compiuto insieme, sostenendoci, dei passi decisivi per il futuro del gruppo. Sia Hillel che io, però, sapevamo anche dove stavamo per andare, prima ancora di passare da casa per salutare i nostri affetti: c’era da scommetterci su chi, fra i due, avrebbe raggiunto per primo la casa del suo spacciatore…”. Per una tragica fortuna di Anthony, il destino terribile s’abbatterà su Hillel, ritrovato morto qualche giorno dopo, riverso sull’ultimo quadro che stava dipingendo.
Nonostante si trovassero a un passo dal successo di massa; nella miglior line-up di sempre; con l’album più efficace fino a quel momento e con un live act che gli aveva assicurato il tutto esaurito sulle due sponde dell’oceano, i Peperoncini sembravano incapaci di sopravvivere a se stessi.
Persa per sempre una figura importantissima delle loro vite e della loro arte, i Red Hot Chili Peppers sono al tracollo: un ormai perso Kiedis fuggirà in Messico per evitare la stessa fine dell’amato chitarrista, ma – proprio per questo – mancando al suo triste e, per l’analoga “malattia”, insostenibile funerale; Irons avrà un esaurimento nervoso e abbandonerà disgustato la band e il mondo del music business (tornerà solo nel 1994, nei Pearl Jam, per un paio di album e tour); Flea, come sempre, è il più lucido: affronterà il dolore e la consapevolezza che tutto – forse – se n’è andato via con Hillel, ma proprio perché questa era anche la band di Slovak, non si rassegna che muoia anch’essa con lui.
(Giuseppe Ciotta)