Qualche mese fa “L’Europa all’Opera” di Pier Vittorio Marvasi (Zecchini Editore, 2010), ci ha ricordato l’importanza del teatro lirico nella storia europea, anche e soprattutto come elemento unificante di varie culture e, quindi, di leva di quella che si potrebbe prefigurari come un’Unione Europea meno traballante di quella di oggi.



Marvasi è un giornalista; quindi, la sua analisi è storico-sociologica e politica più che musicologica. Adesso, tre musicologici di razza e di rango (Giovanni Gavazzeni, Armando Torno e Carlo Vitali) con la benedizione di Philip Gossett (Università di Chicago e Università “La Sapienza” di Roma) affrontano, con una strumentazione molto più ricca di quella di Marvasi, un tema che, in occasione dei 150 anni dalla proclamazione del Regno d’Italia, dovrebbe essere a noi tutti vicino: il contributo del melodramma (e del suo mondo) al Risorgimento.



“Strumentazione molto più ricca” non vuole dire che il lettore si trova alle prese con una ponderosa tesi di dottorato di ricerca data alla stampe da una semi-clandestina casa editrice universitaria. Il libro (“O Mia Patria – Storia musicale del Risorgimento tra inni, eroi e melodrammi” Baldini e Castoldi Dalai Editore, 2011) è accattivante sin dalla copertina: una litografia in bianco e nero nel Teatro alla Scala nell’Ottocento con uno sgargiante tricolore esposto sul balcone principale. Sia il titolo sia il sottotitolo indicano che, per quanto scritto da specialisti e basato so solide ricerche in polverosi archivi, il volume si rivolge a un pubblico vasto – quello di coloro un tempo chiamati “persone colte” – e, per questa ragione, è redatto in uno stile scorrevole, non privo di punte di ironia.



Il libro è composto di tre parti che solo un lettore superficiale può considerare distinte. Sono strettamente interdipendenti: le prime due (“Il melodramma ha fatto l’Unità d’Italia” di Giovanni Gavazzeni e “Opera, Affare di Stato” di Carlo Vitali) sono complementari – rivolte rispettivamente a “riscoprire” parte della storia della musica del Risorgimento e l’organizzazione della vita musicale nel periodo), mentre la terza è un “cammeo” – un’analisi della vita e dei lavori di Pietro Maroncelli (figura nota principalmente perché appare ne “Le Mie Prigioni” di Silvio Pellico) come musicista. Il “cammeo” non è una monografia aggiunta, ma non solo mostra dimensioni poco conosciute di una personalità molto più complessa di quanto appaia nelle tre paginette del libro di Pellico, ma è un caso di studio stimolante dell’interazione tra musica e politica nel Risorgimento.

Tra i numerosi aspetti stimolanti del libro, alcuni sono particolarmente significativi. Ad esempio, Gavazzeni dà il giusto peso ai ruoli rivestiti da Rossini, Bellini e Donizetti nel Risorgimento, togliendo a Verdi il monopolio che egli non avrebbe affatto desiderato, ma che una storiografia pressappochista e l’immaginario popolare gli hanno dato. La ricca documentazione di Vitali dell’organizzazione musicale in un’Italia ancora povera e rurale, costellata da città di piccole dimensioni poco e mal collegate tra loro è pregna di insegnamenti anche per oggi: nel Risorgimento l’opera italiana viveva principalmente su basi commerciali, di mercato, con limitate sovvenzioni pubbliche, mentre nel resto d’Europa era principalmente “di corte”. Ciò dava maggiore libertà e la possibilità di contribuire in misura non marginale ad un “movimento” che non solo o principalmente “di Palazzo”, ma anche incertezze, debiti e in breve “miserie”.

Il lavoro su Maroncelli non soltanto ci mostra i nessi tra musica e politica esaminando un episodio specifico (spesso lo studio del ramo di un albero è più eloquente di quello di un bosco), ma ci illumina sulla nascita dell’Italian Opera House di New York, dove il nostro non più carbonaro cattolico e non più prigioniero allo Spielberg era diventato direttore del coro.

Leggere il lavoro ci fa comprendere un po’ meglio chi siamo e da dove veniamo.