Ben Cooper torna con il secondo album della sua one man band, Radical Face. Il tema di questo lavoro, “Family Tree: The Roots”, è fissato già dalla prima breve canzone Names, quasi una ninna nanna che avrebbe potuto anche terminare l’album:

“Questa strada ora è il mio unico amico
Mi dà il benvenuto sui tratti dritti e sulle curve
Ma non importa quanto io starò qui
Non conoscerà mai il mio nome
Sono molto lontano da casa”



Il tema è la vita come viaggio e i legami con il passato. Un viaggio fatto di fughe e ritorni, ricordi e relazioni che per tutto l’album sono espressi con un’alternanza di primi piani e sfondi, tra ricordi (il passato come vincoli familiari, le radici del titolo) e l’attuale lotta per trovare un posto (o lo struggimento per non averlo trovato) da chiamare casa, un posto in cui essere amato ed essere quello che dovresti essere.



Senza dubbio, in “The Roots”, c’è una dimensione visionaria minore rispetto all’album “Ghost”: le canzoni hanno un racconto più chiaro, anche se stremamente poetico. Radical Face ha anche abbandonato – insieme ai temi lamentosi che caratterizzavano il suo lavoro precedente – i pesanti strati di campionamento scegliendo un’atmosfera più sobria, delicata di un sognante folk.

Musicalmente c’è un’unità che rende I suoni di “The Roots” più simili a un album, che a una serie di canzoni (probabilmente il maggior difetto di Ghost). Questo non significa che Ben Cooper ci offra un lavoro piatto. Sembra più che, mentre continua a costruire canzoni attorno a melodie accattivanti, stia raggiungendo quella maturità che non ricerca la sostanza in grandiosità artificiali, ma la ritrova in un piacevole equilibrio tra testi e musica.



La capacità di questo giovane artista di scrivere testi poetici, intensi e fortemente visivi è testimoniata in tutto l’album, ma risplende particolarmente in alcune canzoni. Per esempio in Severus and Stone, dove gli alberi, il fuoco e l’inverno diventano personaggi.

“Tutti gli alberi stanno lì come scheletri
Silhouette di inchiostro versato

La neve cade in fogli e si avvolge attorno ai nostri piedi
Facciamo il fuoco ancora una volta con l’inverno che batte alla porta”

Oppure in The moon is down, dove l’ineffabile stupore per qualcosa di speciale che si trova in una persona (ammirata, desiderata ma ancora misteriosa) viene reso così:

“Per tutta la vita ti ho guardata danzare da sola
Con una musica che non riuscivo a sentire
Io non ero in grado di sentire queste canzoni”

La morte come parte del viaggio appare spesso in “The Roots”. Talvolta rappresentata nel modo visionario di Ben, come in Severus and Stone, Kin e The Dead Waltz, altre volte descritta più direttamente in un modo doloroso come in A pound of flesh o in Always gold, dove la morte è la contraddizione del desiderio per cose che durino per sempre:

“Tutto se ne va, sì tutto se ne va, ma io sarò qui fino a quando non sarò altro che ossa nella terra”.

L’esilio cui ci si condanna da noi stessi e la negazione dell’esistenza di qualcosa o qualcuno cui ci si possa aggrappare sono il tema di Ghost town:

“Mi manchi
Ma non c’è ritorno a casa
Io ancora penso a te
Ma tutti sanno
if you care then let it go”

In Severus and Stone, Always gold, Mountains e Family Portrait è invece trattato il tema della famiglia, con un misto di nostalgia e di dramma, di gioia e tristezza che fa vibrare con la vita queste canzoni. 
Quasi tutto in questo album è stato fatto da Ben o dalla sua famiglia: dalla scrittura, esecuzione, produzione, missaggio delle canzoni fino alla stampa dei Cd e alla confezione, arricchita con una bella grafica.
E anche questo che rende speciale il lavoro di Ben Cooper e che rende orgoglioso chi sostiene l’opera di questo promettente artista americano.