All’interrogativo se Nino Rota autore di colonne sonore abbia nociuto al Rota compositore di musica strumentale, Federico Fellini replicava netto: «È una domanda per la quale dovrei sentirmi profondamente offeso. Mi sembra invece che a Nino, dall’aver lavorato nel cinema, e nel mio in particolare, sia venuta la forza e la fiducia che possono scaturire dal successo. Non credo che il suo prestigio ne sia venuto ridotto, per aver scritto canzoni come “La pappa col pomodoro” e per i miei film, se non in chi ha pensieri moralistici e rigidi sui fatti dell’arte».
Le parole del regista romagnolo fissano bene i termini della questione, come confermava in un’intervista lo stesso autore: «Non credo a differenze di ceti e di livelli nella musica. È diverso soltanto il territorio tecnico in cui mi muovo». Al bando, perciò, l’etichetta di “cinematografaro”, il ritratto dell’allegro e bonario inventore di motivetti, simpatico creatore di marcette e/o di scoppiettanti melodie vernacolari. La sua è una “musica senza virgolette”, eletta, estrosa, elegante, che commuove, stupisce, funziona perfettamente da sola, senza supporto di alcuna immagine, recando il sigillo del genio.
Le cose si complicano se osserviamo che molti temi da lui usati nel repertorio sinfonico e cameristico, riappaiono in forme, abiti, funzioni e vita nuovi, dentro i suoi pentagrammi: un travaso incessante da uno spartito all’altro, incurante di generi, classificazioni, steccati. Confini labili, inesistenti; intersezioni fra mondi paralleli. «Disperato ogni tentativo di individuare la percentuale di musica già scritta contenuta nelle sue partiture – secondo lo studioso Dinko Fabris – e poi Rota scriveva con la radio accesa: ciò portava a un continuo affiorare d’ispirazioni di cui lui stesso ignorava la provenienza». Un artista-spugna, inconsapevole plagiario, enciclopedia di citazione proprie e altrui, quindi.
Com’ebbe a notare Morando Morandini: «Diavolo d’un Rota: o copia gli altri, o cita se stesso». Vesti compositive arlecchinesche, indossate a mo’ di trompe-l’oeil; uso costante del bordone, della progressione; frequenti dissonanze coloristiche, ricorso a pulsazioni elementari. Però «autore complesso da eseguire – secondo Filippo Lama – difficile per l’insieme; per la presenza di tonalità particolari; per via delle grandi variazioni dinamiche e di timbro; per sottili incastri ritmici».
Tanto di cappello al finto-semplice autore del “Cappello di paglia”, allora. Onore al musicista irrimediabilmente “out”, per usare il marchio di Fedele D’Amico, imprendibile e sfuggente, «dal linguaggio inequivoco, orecchiabile, fedele alle otto battute, latore di messaggi perfino ingenui: le sue idee sono trionfali bolle di sapone che paiono precipitarsi l’una addosso all’altra, e via via sospingersi verso direzioni mutevoli e imprecisate».
La sua lezione è ancora attuale? «Più viva oggi di un tempo – risponde Lama – espressione di un’Italia umile, capace di impegnarsi e di credere in un progetto di crescita». Altre prospettive di lettura suggerisce lo scrittore Mario Soldati: «Il riposto senso tragico, l’incessante presentimento della morte, che però non pesa, anzi conferisce una straordinaria leggerezza, un’ineffabile grazia a melodie struggenti, perfette, chiuse nella loro malinconia misteriosamente felice».
E se molti invocano le categorie della liliale innocenza, dell’angelicità, del candore immacolato che inneggia alla bellezza e non ha paura di rivolgersi direttamente al cuore di chi l’ascolta, il critico Jacopo Pellegrini puntualizza: «L’andatura di Rota è sempre frastagliata, sul piano delle micro e macroforme. Dietro a tanto gioviale e sapientissimo incastro di moduli e spunti, ribolle un che di opaco, d’inquieto, ombre inestirpabili. Nostalgia? Polemica antimoderna? Forse che anche il nostro angelo musicante aveva cognizione del dolore?». Chi avrà ragione? Agli ascoltatori l’ardua sentenza.