“Vengo anch’io”. Fabio Fazio ha scelto uno dei grandi successi della carriera di Enzo Jannacci (correva l’anno 1968) per intitolare lo speciale di “Che tempo che fa” a lui dedicato, che andrà in onda questa sera su Rai Tre. Un tributo a un grande artista, che sarà presente in studio con i compagni di viaggio di una vita. Da Dario Fo a Cochi e Renato, da Massimo Boldi a Paolo Jannacci, vero e proprio “figlio d’arte”. Non solo, infatti, pianista jazz, arrangiatore e curatore del “Cofanetto Remastering 1975-1979″ (Ed. Ala bianca – “Quelli che”, “O vivere o ridere”, “Secondo te… Che gusto c’è”, “Foto ricordo”), ma anche autore dell’“unica biografia di Enzo Jannacci che racconti qualcosa di vero”, intitolata “Aspettando al semaforo”. «L’idea del titolo è nata mentre ero in taxi con Enzo – racconta Paolo Jannacci a IlSussidiario.net –. A volte nella vita interrompiamo la nostra corsa, magari per un semaforo rosso. Sono i momenti in cui possiamo ripensare a tutto ciò che è stato fatto e a ciò che manca ancora da fare».
Anche il sottotitolo colpisce. Secondo lei, al di là di qualche cattiva biografia, Enzo Jannacci è un artista per certi versi incompreso?
In un certo senso sì. Molti pensano a lui come a un “cantante che fa ridere”, ma in realtà c’è qualcosa di molto più profondo. C’è una poetica e un’umanità che si può notare in mille sfumature che troppo spesso passano inosservate. Per questo è nato il desiderio di scrivere questa biografia. Ho provato in pratica a svelare e a mettere a nudo i sentimenti del papà e a dare i miei giudizi.
Forse qualcuno lo considera, come ha scritto lei, un “canzonettaro che farfuglia stranezze”, il suo racconto però si apre così:«Ci sono molte persone che lo chiamano genio, trattasi in realtà di padre».
Ho voluto mettere a disposizione un punto di osservazione privilegiato, anche perché i giudizi sono mediati dalla conoscenza che uno ha. È normale che qualcuno lo conosca per qualche aspetto molto limitato. Da parte mia, lo considero una persona geniale, rispettosa della vita, umile, ma di grande cultura.
E quali sono secondo lei i tratti della sua genialità?
Saper trovare la bellezza anche nel più piccolo dettaglio della vita. Enzo può essere affascinato anche da un piccolo moscerino e farti i discorsi più importanti della vita a partire da quello. È un modo di approcciarsi alla vita che lo rende unico. E poi è sempre rimasto lo stesso, ancorato a valori che l’hanno tutelato da mille stupidate. Non solo, c’è un aspetto che secondo me non va dimenticato. Oltre a essere un artista è un bravo medico e lo ha sempre fatto per aiutare il prossimo.
Tornando al titolo, è proprio davanti a un semaforo che nel libro si svolgono i dialoghi sulla vita tra padre e figlio.
Esatto. Nella prima parte ho voluto dire ciò a cui tenevo con il mio punto di vista e la mia ironia. Nella seconda è come se fossimo a teatro. Passiamo attraverso tutte le cose, grandi o piccole, che hanno influito sul papà. Dalla guerra, al motorino, dagli amici, al Teatro fino al Milan…
E a Milano, la città che Enzo Jannacci ha cantato in mille canzoni.
Sì, anche se non è più la città aperta di tanti anni fa. Oggi è blindata, ingabbiata dagli schemi mentali e dalle difficoltà, anche di spostamento. È come se i milanesi non si incontrassero più, perché l’unico tragitto rimasto è quello tra la casa e il lavoro. Sia chiaro, è una critica che faccio a me stesso, prima di tutto. Conosco solo due persone che girano ancora per la città soltanto a piedi. Sono i pochi che riescono a respirare e a guardare. E questo, di certo, limita la cultura di un popolo.
Ma com’è stato crescere nella Milano di quei tempi tra Dario Fo, Cochi & Renato, Teo Teocoli e Giorgio Gaber?
I bambini sono così, dove li metti assorbono come spugne tutto quello che sentono e che vedono. Per me è stato normale. Ero circondato da tutti gli amici di Enzo e, a seconda dei casi, ho avvertito più o meno amore verso di lui. Da grande poi ho tratto le mie conclusioni.
Di certo comunque quell’ambiente mi ha aiutato a sviluppare il senso critico, il mio modello istrionico e il modo di fare ironia.
Anche il desiderio di fare il musicista?
Sì, anche se non è stato facile. Volevo arrangiare e suonare i brani del papà. Ovviamente però le aspettative erano alte e non erano ammesse figuracce. D’altra parte i suoi musicisti sono sempre stati di Serie A. Enzo comunque non mi ha tutelato, della serie “o resta a galla o annega”. Ma l’ha fatto solo perché era sicuro che ce l’avrei fatta. Io e lui siamo sempre stati una squadra.
E dal punto di vista musicale cosa ha preso di suo padre?
La grande energia che c’è nelle sue composizioni, soprattutto in quelle degli anni Settanta e Ottanta mi hanno influenzato molto. Se si prendono i quattro dischi che ho appena rimasterizzato, ad esempio, si trovano dentro un sacco di idee: spunti teatrali, musicali, monologhi, denunce sociali… Io oggi ho una mia direzione, quella di un “Jazz per tutti”.
Cosa intende dire?
Potremmo dire che il Jazz è l’esteriorizzazione della soggettività del musicista, che sviscera il suo essere per gli altri. Io mi permetto di farlo in modo intellegibile, piacevole all’ascolto, attraverso l’uso di “mediazioni”, piccole convenzioni che permettono al brano di essere apprezzabile da tutti. E forse anche in questo ci sono i tratti peculiari del papà…
(Carlo Melato)