L’espressione Et incarnatus est de Spiritu sancto ex Maria virgine et homo factus est costituisce un punto centrale della professione di fede cristiana. Il testo in uso oggi nella Messa deriva dalla prassi battesimale. Di questo antico uso c’è un’evidente traccia nella parola iniziale (Credo) che sottolinea la dimensione personale individuale (i testi liturgici di solito sono declinati alla prima persona plurale che evidenzia la dimensione comunitaria).
Chi ascolta le messe polifoniche classiche e soprattutto quelle del periodo romantico, rimane colpito dal linguaggio corale con cui Et incarnatus è cantato.
La messa in re minore di Anton Bruckner è un esempio magistrale di ermeneutica corale. Le messe tramandate dalla cosiddetta tradizione monodica nel repertorio del canto gregoriano non presentano quasi mai una particolare elaborazione della frase. Essa è inserita nella struttura lineare di una recitazione relativamente semplice. Spesso non si propongono formule melodiche nuove, ma si riprendono moduli già presenti in altre sezioni del simbolo. Così avviene, ad esempio, nel Credo I dell’edizione vaticana, interamente costruito su sole sei brevi frasi melodiche ricorrenti.
La semplicità musicale del Credo “gregoriano” si spiega per vari motivi. Il testo è assai esteso e una sua ampia elaborazione musicale avrebbe dilatato il tempo della professione di fede sino a interrompere e ostacolare il ritmo della celebrazione. Fioriture musicali, talora notevoli, si trovano nel Kyrie eleison e nel Sanctus, che hanno un testo breve. Un altro fattore da tenere presente è di natura cronologica.
Il Credo è entrato “ufficialmente” nella Messa del rito romano e si è diffuso solo all’inizio del secolo XI, quando papa Benedetto VIII ha ceduto alla richiesta dell’imperatore Enrico II che nel 1014 si era assai meravigliato di non sentire il simbolo nella Messa celebrata a Roma, mentre l’uso era allora abbastanza corrente nei Paesi germanici.
Con il tempo, tuttavia, le parole dell’Et incarnatus richiamano l’attenzione. La memoria dell’incarnazione è vissuta con profonda ripercussione interiore. In vari ambiti monastici e secolari a quelle parole ci si inginocchia o almeno ci si inchina.
Nell’esecuzione musicale si dilatano le note come, nei secoli XVI-XVIII, esplicitano i semicerchi (corone) che si concentrano su et homo factus est, parole che possono anche essere scritte in rosso come in rosso sono talora scritte le note sovrapposte.
La semplicità della linea melodica gregoriana, in contrasto con molte composizioni polifoniche, conduce il cantore e l’uditore oranti al centro del mistero dell’incarnazione del Verbo. Si percorre la via obbligata dello spogliamento totale di Colui che ha rinunciato a ogni privilegio per svuotarsi della sua divinità e dare compimento al sacrum commercium: lo scambio inaudito che introduce la creatura umana nel mistero di D-i-o.
Non è un fatto esteriore o accessorio, una mera conoscenza intellettuale né un pio desiderio. Il Verbo si fa in tutto uguale all’uomo affinché l’uomo diventi in tutto D-i-o, figlio e coerede del regno.
Prendere coscienza di questa realtà non è facile, è un’esperienza da brividi. Prima di realizzare la gioia indicibile della salvezza operata dal Verbo abbreviato nella carne umana e nella Parola liberatrice, ci si trova intontiti e sgomenti. Nel balbettio del cuore in ricerca. Nel prostrarsi in adorazione di Gesù Bambino, dal cuore sgorgano frammentarie le parole del Credo. Con quella sobrietà che la Chiesa ha fissato nella semplice recitazione del canto gregoriano.