Nasceva cent’anni fa Franco Ferrara, una delle più formidabili bacchette della storia. “Il più grande talento direttoriale del Novecento”, secondo Carlo Maria Giulini. “Un faro che ci illumina e ci guida”, per Lorin Maazel. “Vederlo dirigere? Un avvenimento eccezionale” (Gianandrea Gavazzeni). Venerato da Celibidache, temuto da Karajan: “Non sono mai così teso e nervoso, come quando so che c’è lui in sala”, confida in gran segreto il divino Herbert.
Quando i due s’incontrano, il direttore austriaco lo prende a braccetto, gli appoggia la testa sulla spalla e fa le fusa, come un nipotino coccolone con lo zio d’America. Violinista, pianista, organista, compositore prodigio, il siculo Ferrara (la Naxos ha pubblicato da poco un cd con suoi lavori sinfonici, diretti da Francesco La Vecchia, “l’allievo prediletto” nel giudizio di Goffredo Petrassi). Così La Vecchia, direttore dell’Orchestra Sinfonica di Roma: “Ferrara mi ha instillato il germe della cura, dell’attenzione, dello studio, del rispetto e dell’ammirazione per la musica sinfonica italiana. Un’immensa personalità. Lo studio furioso e inarrestabile di questi anni è la moneta che volentieri pago per restituirgli almeno una piccola parte di quanto lui mi ha dato”.
Ruba i trucchi del mestiere a Mengelberg, De Sabata, Walter. Un artista fermato dal destino. La sua folgorante carriera è interrotta da una misteriosa malattia. “Dirigevo la sinfonia del Nuovo Mondo di Dvorak a Roma. Aveva appena attaccato il corno, e io sono caduto. Mica svenivo: cadevo a occhi aperti e questa era la mia grande, terribile, vergogna”. Si parla di epilessia, di stress, di malattie nervose. In realtà Ferrara soffriva di un eccesso di coinvolgimento emotivo. Gli altri giocavano con la musica, lui ne era afferrato per il collo, soffocato, gettato a terra da troppa bellezza. S’abbatteva come un tronco d’albero divelto, durante un’esecuzione o una prova, cadendo sulla prima viola o sul primo violoncello. Poteva ferirsi e ferire.
È il 1940. Quando il fatto si ripete decide di non affrontare più in pubblico la direzione d’orchestra. Inizia a concertare musiche per film. È sua, ad esempio, la Settima di Anton Bruckner che fa da commento alle straordinarie immagini di “Senso”, uno dei capolavori di Luchino Visconti.
Si dedica all’insegnamento della direzione d’orchestra. Diventa il maestro dei Maestri. A detta di molti, il più grande di tutti. Decine e decine i suoi allievi: star del podio, nomi gloriosi, onesti professionisti, Seiji Ozawa, Zoltan Pesko, Andrew Davis, Adam e Ivan Fisher, Eliahu Inbal, Daniel Oren, Jesus Lopez-Cobos, Aldo Ceccato, Muti, Chailly, Sinopoli, Gelmetti, Allemandi, Scimone, per citarne alcuni.
Chiunque lo abbia incontrato ne riceve lo stigma definitivo. Così Gilberto Serembe, insegnante di direzione al Conservatorio di Brescia: “Raccontare Franco Ferrara è come parlare dell’Araba fenice. In mancanza quasi assoluta di registrazioni audio e video, soltanto chi ha potuto conoscerlo dal vivo può tentarne un veritiero ritratto, perché il mito che gli aleggia intorno non fa che ingigantirne il mistero. Non era un insegnante nel senso comunemente inteso. Da lui si andava non per imparare qualcosa, bensì per avere la conferma o acquisire certezze circa la propria natura. Soltanto con la sua presenza, magari con una smorfia di disgusto, era capace di modificare per sempre l’avvenire di un giovane direttore. Possedeva un magnetismo totalizzante. Se non l’avessi visto con i miei occhi saltare sul podio, urlare col suo accento siciliano “tchrombooni!” e sentire completamente trasformata la sezione, mai ci avrei creduto. A lui devo la comprensione di Beethoven. Il giorno in cui diressi l’Ouverture Coriolano e mi sentii afferrare per il braccio da Ferrara, avvertii la presenza fisica di Ludwig. Dirigere davanti a Ferrara era come trovarsi di fronte agli autori, fossero Beethoven, Brahms o Debussy. Lui li incarnava”.
In una foto d’archivio, Franco Ferrara prova al pianoforte un brano orchestrale. Dal secondo piano uno stralunato Leonard Bernstein lo fissa con occhio da monocolo e la mandibola bassa del pendolare ferroviario: “Ma questo mostro chi è?”. In un altro scatto, Lenny suona mordendosi il labbro inferiore. Ha fifa di sbagliare. Un talento debordante, un misto tra il rigore di Toscanini e l’estro di Carlos Kleiber. Memoria prodigiosa, un orecchio sovraumano. Un solo esempio. Hindemith prova con l’orchestra di Santa Cecilia un concerto di musiche proprie. A un certo momento s’interrompe perché in un accordo sente un suono estraneo. Si ripete il passaggio, ma lo sbaglio c’è ancora. Altro attacco, altra nota intrusa. Niente da fare, non si riesce a trovare il colpevole. Hindemith s’innervosisce. A quel punto Ferrara, seduto in fondo alla sala, prende educatamente la parola. Una viola sfiorava inavvertitamente una corda con l’arco, producendo un debolissimo armonico. Hindemith lo percepiva, Ferrara aveva individuato l’involontario responsabile. Con lui l’orchestra si staccava da terra. Aveva un controllo intellettuale assoluto della partitura e ne coglieva il nucleo più essenziale.
“Mente fredda e cuore caldo”. È il dogma che subito balza in mente a Umberto Benedetti Michelangeli quando sente il nome di Ferrara, suo indimenticato insegnante. “Le sue esplosioni di rabbia erano devastanti. Non tollerava l’impreparazione. Chi andava da lui doveva avere la tecnica a posto. Se questo non accadeva le scenate erano terrificanti. Lasciava a metà la lezione gridando come un pazzo. Pareva posseduto dal demonio della musica. Sentivamo la sua voce echeggiare crudele, insultante, nei corridoi del teatro. Una volta arrivò a scardinare una poltrona della platea, a schiodarla da terra con calci violentissimi. Ma fuori dalla musica era un uomo dolcissimo, generoso, scherzoso (amava le barzellette piccanti), loquace, carismatico e puro”.
Chailly, agli inizi di carriera, era di un’esuberanza gestuale esagerata. Racconta: “Andai da Ferrara. Maestro, sento di agitarmi troppo. Mi rispose: quel che conta è il risultato, se ti serve per raggiungerlo agitati pure. Solo una volta alzò la voce con me. Mi urlò: parli troppo! Quantifica col gesto, ma taci. Se vuoi cantare mentre dirigi, fallo pure; porta l’orchestra con te, ma non fermarti mai per dare spiegazioni verbali. Sii te stesso, raggiungi il tuo scopo espressivo col tuo fisico. Un giorno andò in collera con un americano e gli gridò: dirigi con quello che vuoi, se ti serve anche col culo. Viveva il tormento della sua rinuncia. Subiva il sacrificio del podio negato. Nelle rare volte in cui tornava a dirigere, correvo in orchestra per guardarlo frontalmente. Seduto tra gli ottoni, mi facevo ipnotizzare da quel gesto sconvolgente”.