La sera dal 4 dicembre ero alla Scala all’anteprima del “Don Giovanni” che il 7 dicembre inaugurerà la stagione. Sarebbe irriguardoso recensire lo spettacolo con la moderna e innovativa regia di Robert Carsen, la bacchetta scintillante di Daniel Barenboim e un cast da favola in una sala piena di giovani entusiasti con pochi critici musicali imbucati nei palchi. Un solo cenno allo spettacolo: molti ragazzi con cui ho parlato – dato il mestiere che faccio da 45 anni ne sono uso – hanno compreso l’integrità della direzione teatrale e musicale e il significato dello spettacolo molto più di tanti critici che si aspettavano crinoline e parrucche alla Strehler e sono rimasti sconcertati da una “black comedy” sulla condizione umana e sulla politica.



Da professore ormai “emerito” (a causa dell’età non dell’apporto dato alla “triste scienza”) mi sono chiesto cosa vuol dire questo spigliato spettacolo di vero teatro in musica per uno dei miei studenti (sui 25-30 anni) alle prese con un dottorato, impregnato di “political economy” e con qualche epidermica nozione di cultura musicale.



Il successo del “Don Giovanni”, nella versione drammatizzata e musicata da Da Ponte e da Mozart, dipende dal fatto che il lavoro, nonostante abbia circa 225 anni sulle spalle, rispecchia meglio di altri la tensione tra “zeloti” (ancorati al passato ed alle sue regole sia scritte sia implicite) ed “erodiani” (rivolti, invece, verso la modernizzazione). Specialmente nell’impostazione di Carsen, il mito viene visto in termini di paradigmi di base della teoria dei giochi (il “dilemma del prigioniero”) e inquadra il protagonista e il suo deuteragonista in un contesto analitico con cui  giungere a generalizzazioni sui “falchi” e sulle “colombe” come categorie economico-sociali (e generazionali) di fronte al cambiamento. Nulla di più attuale al contesto dell’economia e della politica europea ed italiana.



Altro punto è l’ineluttabilità che, in una fase di transizione (quasi da “die verwandlung” della tradizione tedesca), ci sia un agente economico disponibile a fare il “falco” sino alle estreme conseguenze – ossia farsi uccidere – per facilitare l’affermarsi delle nuove regole. Il Don e il Commendatore, i “falchi”, devono giungere che alla doppia morte (e caduta agli inferi ed alla rinascita accennata da Carsen) per fare avanzare la modernizzazione frenata dalle “colombe” (di cui Don Ottavio sarebbe lo stereotipo). Tuttavia, mentre i “falchi” e le “colombe” differiscono in materia di tempi e modi per affrontare il cambiamento,  gli “zeloti” il cambiamento non lo vogliono affatto e gli “erodiani” sono pronti a recepire “habits and rules” altrui pur di favorire il cambiamento.

La distinzione tra “zeloti” ed “erodiani” viene dai Vangeli. Non rileva per tutte le interpretazioni del mito di Don Giovanni. Non per quelle di Tirso da Molina o di José Zorilla – due “moralisti” bigotti, i quali  mettevano a nudo “la malvagità punita” del “burlador”. Non per quella di Molière, “immoralista”, invece, per eccellenza. Forse neppure a quella di Da Ponte, nella vita privata un abate “immoralista ben temperato” sempre in bolletta che versificò una “contaminatio” delle più note versioni precedenti e, vecchio e malato, tornò a Santa Romana Chiesa e scelse il “Don Giovanni” per tentare di portare l’opera italiana a New York ( dove era approdato inseguito da creditori di ogni sorta).

“Don Giovanni” ha specificità musicali di “political economy” che  lo rendono molto più pregnante del libretto  (immaginiamone cosa ne avrebbero fatto un Piccini, un Paisiello od un Salieri?). In primo luogo, sin dalla ouverture avvertiamo che siamo di fronte a qualcosa che è ben diverso da un’ “opera buffa” o di un “dramma giocoso”: si avverte il fuoco dell’inferno in fa (che, tre ore più tardi, concluderà l’opera). In  secondo luogo, le note di Mozart, avvolgono Don Giovanni in quel clima  luciferino  che ritroveremo alcuni lustri più tardi nell’”opera nazionale” tedesca. È luciferino lo stesso brindisi alla libertà del “finale primo”, giustapposto, simmetricamente, alla scena, pure essa luciferina, con il Commendatore nel “finale secondo”. Luciferianamente, né il Don né il Commendatore hanno una “cavatina” (aria di ingresso nelle convenzioni operistiche dell’epoca) o  “cabalette” oppure “legati”. Ma nella concezione Carsen-Barenboim è un luciferino intriso di melanconia – come quella dei giovani delusi dagli sforzi per trovare un primo lavoro.

Proprio questo aspetto luciferino e melanconico fa sì che l’interazione “economica” tra il Don ed il Commendatore è  analoga a quello del primo rispetto al secondo giocatore in un “gioco ad ultimatum”;  viene, perciò, caratterizzata da dissonanze e da anticipazioni cromatiche. Don Giovanni vuole  tornare  all’inferno  da dove è arrivato –  come dettoci dalle prime note dell’ouverture . Il Commendatore è  uno strumento  per compiere questa marcia, più efficace dei tentativi di seduzione (tutti “in bianco”, come esplicitato dai “diminuendi” che chiudono ciascuno di loro).

Pure il Commendatore appartiene, come il Don, al mondo musicale della futura opera nazionale tedesca con  ottave che tendono verso bassi mai sperimentati prima di allora. Anch’egli è segnato dal destino sin dal “do” con cui appare in scena e costretto al “gioco ad ultimatum” fin dall’inizio. Inoltre, il “gioco ad ultimatum” viene ripetuto – con inversione dei ruoli (il Commendatore in quello del primo giocatore ed il Don quello del secondo) – nella sequenza finale. La “teoria dei giochi”  aiuta a comprendere il contesto istituzionale-musicale  in cui operano Don Giovanni ed il Commendatore – un contesto proteso verso l’opera tedesca dell’Ottocento. E’ la tensione verso il nuovo degli “erodiani” che sovente soccombono proprio per eccesso di modernizzazione.

È un contesto molto differente da quello degli altri personaggi: il mondo musicale dell’opera “all’italiana” fatto di cavatine, arie, cabalette, duetti, terzetti e concertati. Regole ben definite che assicurano certezze – informazioni  simmetriche e costi di transazione relativamente bassi, ed  in cui il pay-off , pur se limitato, conviene a tutti, da “utilitarismo delle regole” un po’ pacioccone. Si guardi, in particolare, a Don Ottavio, un baritenorino lirico da  caricatura. Musicalmente, i due mondi, i due “sets” di “habits and rules”,  restano paralleli, distinti e distanti. Non c’è evoluzione, con l’”olocausto”  di uno dei “falchi”, per schiudere una società di “colombe”. Con grande raffinatezza,  sono due mondi in “re”: re minore quello luciferino e melanconico, ma modernizzatore, del Don e del Commendatore; re maggiore quello perbenista di Don Ottavio e del resto della brigata (Leporello, Donna Anna, Donna Elvira, Masetto, Zerlina e compagnia cantante). Anche loro, però, nella concezione di Carsen e Barenboim finiscono, nelle rispettive solitudini, all’inferno.

Perché scrivere questa nota per i nostri  lettori  in luogo di una cronaca della serata? Da un lato , di cronache sono piene i quotidiani. Da un altro, nel pienone della Scala ho incontrato un mio dottorando venuto da Roma e dopo lo spettacolo lo ho invitato ad un risottino al “Salotto” in Galleria. Si è parlato un po’ dello spettacolo ma molto del suo significato. I giovani politici – da Mariastella Gelmini a Matteo Renzi – corrano in Scala , senza abito lungo e smoking. Evitando, quindi, il 7 dicembre. Si replica sino a metà gennaio.

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