La nostra epoca, colma di spiritualismi senza spirito e di carnalità senza carne, può ancora comprendere la portata di un’opera come il “Don Giovanni” di Mozart?

La questione, secondo noi, è chiarissima e semplice.

Don Giovanni è, da più di due secoli, una delle palestre privilegiate per la speculazione di insigni “intellettuali” che discettano sul capolavoro mozartiano usandolo, nella maggior parte dei casi, come mero pretesto per fare sfoggio di erudizione o, peggio, tirando l’opera per la giacca fino a farle rappresentare le più disparate istanze culturali, dalla rivolta contro ogni forma di tirannia all’elogio del “libero amore” per tacere di alcune – originalissime (?) – letture psicanalitiche del “mito”.



Orbene, l’arte (e massime quella davvero grande) è tale anche perché ammette una pluralità di letture.  Il punto è che il capolavoro di Mozart-Da Ponte è letto, nella stragrande maggioranza dei casi, senza prestare troppa attenzione a quell’aspetto ermeneuticamente fondamentale che è la musica.

Già, perché i vari personaggi, il loro carattere intimo e l’incedere stesso della storia, la sua reale drammaturgia, sono dettati dall’interpretazione che del testo dà la musica.
E fin dall’inizio la musica recita una parola che non esitiamo a definire tragica: responsabilità, risposta.



I due stentorei accordi che aprono, drammatico sipario, l’Ouverture, sono veri e propri “poli” musicali (tonica e dominante, in termini tecnici) che si chiariscono a vicenda e, nella loro dialettica, sono l’uno la riposta all’altro.
Don Giovanni non vuole rispondere a nulla e a nessuno. È singolare che in un’opera dedicata a un seduttore troviamo solo un duetto di seduzione (di amore non si parla) cantato del protagonista.

Quando corteggia, Don Giovanni è sempre accompagnato dal suo “doppio”, dal servo Leporello che funge da scudo, da paravento dietro il quale nascondersi anche da se stesso.
Il “burlador” di Siviglia è una sorta di Dorian Gray della musica che, proprio perché incapace di rispondere a sé e agli altri, è inchiodato, musicalmente, a una tonalità (quella di Re) e, di fatto, non canta mai da solo, non si espone mai.



La furiosa “Fin ch’han del vino” è una sorta di orgiastica deformazione di sé, una vera e propria ek-stasis (uscita da sé) propiziata dalla bevanda inebriante, mentre la celebre serenata (“Deh vieni alla finestra”) è cantata per interposta persona (Don Giovanni si spaccia per un altro).

La frantumazione della personalità del protagonista (che, in fondo, è anche musicalmente quello che gli altri gli consentono di essere dato che canta quasi sempre, come abbiamo brevemente illustrato, in concertati ovvero insieme ad altri personaggi) viene letteralmente smascherata quando la necessità di rispondere, più ancora che delle proprie malefatte, di sé e della propria vita prende forma nell’emblematica figura del “Convitato di pietra”.

La statua del Commendatore rappresenta, anche musicalmente, un coagulo di significati racchiudendo in sé una serie di stilemi che, comparsi in maniera apparentemente scollegata per tutta l’opera, giungono a una sintesi illuminante.

Don Giovanni non può sfuggire alla stretta (anche fisica) del messaggero celeste e, per la prima volta, deve scegliere tra e no, tra il guardare il suo vero volto (anche di colpevole, anche di farabutto) e il distogliere, per l’ennesima volta, lo sguardo con un atteggiamento che più infantile non potrebbe essere. 

In un misto di orgoglio e terrore il “dissoluto” sprofonda all’inferno mentre la “morale” finale (con lo splendido fugato “Questo è il fin di chi fa mal”) ribadisce, col suo luminoso Re maggiore, che il protagonista, attorno al quale apparentemente ruotava la storia, non volendo essere se stesso, di fatto era ridotto a pura reazione alle persone, alle circostanze, agli eventi.

Dietro l’apparente sforzo prometeico di Don Giovanni si cela una personalità di argilla che, ci insegna Mozart, riesce a mostrare una parvenza di autonomia solo quando può aggrapparsi, quasi parassitariamente, a un altro personaggio.

In fondo, in questo mondo in cui scoprire il proprio vero volto è l’avventura più difficile, Don Giovanni è davvero un’opera che ci pone domande tanto necessarie quanto dimenticate.

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