Don Giovanni è come Ulisse, Falstaff, Don Chisciotte. Un personaggio, un mito, qualcuno che pensiamo di aver conosciuto e che in certa misura è dentro ognuno di noi. Su questo, sulla forza del gentiluomo spagnolo nel nostro immaginario, ha scritto un libro definitivo (con la passione di una vita) Giovanni Macchia.

Ma devo dire che per chi abbia mai ascoltato don Luigi Giussani parlare del “Miguel Mañara”, la passione vera è cominciata lì. Dall’idea della “soluzione” del problema che Don Giovanni pone. Oscar Milosz infatti immagina in quell’opera teatrale una fine della vita diversa per il Don Giovanni. In qualche modo come fa Dante con l’Ulisse di Omero. Giussani, quando eravamo ragazzi e stupidamente ignoranti della nostra grande tradizione lirica e della grande poesia di Lorenzo Da Ponte, ci fece scoprire tutto, attraverso Milosz. Allora, semplificando, amo il Don Giovanni innanzitutto perché parla di questo. Mi spiego.



Per chi non lo sapesse, l’idea di Milosz è che alla fine della sua traiettoria il nostro eroe approda a una soluzione di vera e propria conversione, che passa attraverso l’incontro con una giovane donna chiamata Girolama. Che lo fulmina, in un dialogo decisivo, spiegandogli: ma perché se ami i fiori, li vuoi recidere? Amare non vuol dire possedere fino alla morte. “Si può benissimo amare, in questo mondo sul quale viviamo, senza aver subito voglia di uccidere il proprio cario amore”, dice. Per il Don Giovanni è l’inizio di un itinerario di redenzione e di salvezza, continua ad amare, ma in un modo diverso. Gratuito.



Come inizia infatti la vicenda del Don Giovanni nella grande opera lirica di Da Ponte-Mozart? Con uno stupro e un omicidio. Dopo l’introduzione comica del servo Leporello (profezia giocosa di quella Rivoluzione francese che cadrà solo dopo due anni dalla prima rappresentazione del 1787), si vede il protagonista uscir di corsa da un palazzo inseguito da una donna. Non rivela la sua identità (“Chi son io tu nol saprai”, canta nel duello/duetto con Donna Anna) ma si capisce che è il nostro uomo. La voglia di possedere le donne è una febbre maniacale, una bulimia affettiva e sessuale che lo mette nei guai. Subito si batte a duello con il padre della donna appena violata e lo uccide.



Nei primi pochi minuti del primo atto di questa grande opera c’è già tutto: l’ossessione per le donne di Don Giovanni (Giacomo Casanova era presente alla prima a Praga quella sera, per dire la capacità del genio mozartiano di cogliere lo spirito di quel tempo) è un libertinismo sfrenato, radicale, quasi metafisico. Massimo Mila, nel suo stupendo saggio pubblicato da Einaudi, La lettura del Don Giovanni di Mozart, spiega come sia i cattolici che i laici “intendono porlo in relazione con l’Assoluto, sottraendolo al piccolo cabotaggio della sessualità e dell’erotismo”. Don Giovanni è “il mendicante di un Amore infinito che solo l’Infinito dell’amore, Dio stesso, può soddisfare”. Cercare di “sforzare” tante donne finisce per volersi non accontentare di nessuna, non per niente nell’aria del Catalogo la sottolineatura musicale sta sulla frase: “delle donne fa conquista pel piacer di porle in lista”.

I “no” cantati in faccia nel finale alla statua parlante, fantasma della vittima del primo atto, sono dei no radicali gridati in faccia a un Assoluto, pure ricercato e bramato con tanto ardore. E tuttavia vogliamo bene a Don Giovanni, ci identifichiamo nella sua ribalderia, nel suo essere non ipocrita, nel suo seminare il mondo di donne deluse e piagnucolose che però vorrebbero le sue attenzioni, di fidanzati (e mariti) come Don Ottavio e il contadino Masetto “cornuti” dall’inizio alla fine, e che chissà perché un po’ se lo meritano…

Il fascino del Don Giovanni è tutto nel suo desiderio, nella sua ricerca di innocenza, nel suo anelito all’amore vero. Che c’è. Eccome, se c’è. Prendete l’aria più famosa di tutta l’opera, il “Là ci darem la mano”. È un tentativo ignobile di inganno e di seduzione, ma è anche, contemporaneamente, nei secoli a venire e in diverse lingue del mondo, un inno universalmente conosciuto all’amore vero, all’“innocente amor” che chiude il duetto.

In altre parole la gratuità, o meglio il desiderio di gratuità è sempre dentro ogni amore, anche dentro il capriccio più ignobile e basso. Mozart/Da Ponte, e attraverso don Giussani (lo trovate ne Le mie letture) Milosz, oggi ci fanno gustare la grande questione umana del desiderio di amore e della libertà dell’uomo. Ascoltare così la grande opera lirica messa in scena ieri a La Scala di Milano è una grande opportunità. E una grande gioia per lo spirito.      

 

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