Questa volta nessuna arrampicata ai biglietti della Prima o di un’altra recita del Don Giovanni. Ho provato ad aderire alla pubblicizzazione della Scala in un’unica sala a Milano, quella dell’ATIR Teatro di Ringhiera. Proiezione Rai5, una bella idea, non sei in casa, ma a uno spettacolo e ti immedesimi con la Prima scaligera. All’esecuzione dell’Inno di Mameli, per la presenza in teatro del Presidente della Repubblica, qualche spettatore della sala si è pure alzato in piedi: ne è un segno.
Che cosa c’è di più grande del Don Giovanni di Mozart e Da Ponte? Difficile dirlo: musica che ti cattura dall’inizio alla fine, un tutt’uno con l’azione teatrale; e infatti è grande musica e grande teatro. Che cosa è passato del Don Giovanni la sera di Sant’Ambrogio alla Scala? Sicuramente parecchio, ed è già tantissimo. In certi passi e in certi aspetti volutamente smitizzato: il Commendatore nella partitura di Mozart è sempre presenza misteriosa e piuttosto terribile, la sue melodie sono in note più lunghe e perentorie, l’orchestrazione non lesina l’apporto degli ottoni.
In questa realizzazione questo aspetto è smitizzato, nella direzione dell’orchestra e ancor più nella regia di Carsen, che rappresenta il Commendatore, l’ucciso da Don Giovanni che gli porta di fronte il giudizio divino, trasportandolo in cima al palco presidenziale, tra Napoletano e Monti, forse un po’ meravigliati.
E così via, in molti particolari della regia. L’aspetto importante per il regista è sottolineare la libertà assoluta di Don Giovanni, che ha le sue ragioni, che anzi – secondo questa interpretazione – ha assai più ragioni degli altri personaggi, tutti un po’ più goffi di lui. Che goffo lo sia il servo Leporello, certo è nello scritto: lui è il popolano di buon senso, che non manca di ricordare al suo padrone la sua scelleratezza, ed è ricco di impagabili aspetti umoristici.
Ma che goffa diventi anche Donna Elvira, la donna, tra tutte, certo adirata e combattuta tra opposti sentimenti come le altre, ma che unica vuole veramente bene a Don Giovanni e vorrebbe fino all’ultimo che cambiasse strada, farla diventare goffa come ha fatto il regista (il suo costume di scena per la stragrande parte è una sottoveste, inizio della sua comparsa e fine comprese) rivela forse una forzatura nel confronto del testo.
Che cosa passa del Don Giovanni? Certo molto, la bellezza sempre incantevole delle melodie delle arie, che indipendentemente dalla nobiltà del soggetto, richiamano al Paradiso. E che passi è merito dell’ottima compagnia di canto, nella quale però ci sembra che Barbara Frittoli – Donna Elvira si distingua, oltre che per la bravura, per la profondità dell’interpretazione del personaggio. Straordinario anche Peter Mattei – Don Giovanni, come voce, come attore, che bene porta avanti la linea della libertà sovrana del “dissoluto punito” (nel titolo originale dell’opera) sottolineata da Carsen. E veramente bravi anche gli altri.
Il direttore Barenboim lascia che il tempo delle arie lo governino quasi gli interpreti, e governa poco l’insieme, volutamente, portando il tutto a tempi più larghi del previsto. E poi l’ultimo tocco che interpreta (o forza) Mozart-Da Ponte in modo originale o strano: tutto nello scritto dice la ribellione fino all’ultimo del libertino Don Giovanni che, non volendo pentirsi nemmeno di fronte al Commendatore redivivo dai morti, viene sprofondato all’inferno. Il nostro regista, dopo la conclusione delle arie e del concertato finale “Questo è il fin di chi fa mal”, finita la musica e quindi il testo, fa riapparire in scena Don Giovanni in ottima salute, con una sigaretta accesa, che manda materialmente all’inferno tutti gli altri personaggi.
Mozart è in realtà profondamente morale e insieme umano, per cui in lui non è tanto questione di ambiguità, ma di profonda umanità, per cui tutti i personaggi, per primo il protagonista, non ci può non riuscire anche simpatico.
Questo però è il Don Giovanni scritto. E quello della Scala?