La storia della malinconia in musica (se mai qualcuno decidesse di scriverla) troverebbe difficilmente una (ideale) epigrafe più appropriata del brano che oggi vogliamo presentare ai lettori: la Lugubre gondola n.1 di Franz (Ferenc) Liszt, compositore ungherese di cui quest’anno ricorre il bicentenario della nascita.



Malinconia – melancholia -, letteralmente umore nero ma, più profondamente, senso di vuoto, di un “bene assente” che, spesso senza conoscerlo con precisione, si desidera anche nell’apparente convinzione di non poterlo raggiungere.

Sentimento inafferrabile quant’altri mai la malinconia è dunque caratteristica dell’uomo in quanto tale, è “mattone” costitutivo della natura profonda di ciascuno.



Composto nell’ultimo scorcio della vita di Liszt, il brano che proponiamo illustra magistralmente un’assenza che, partendo probabilmente da una contingenza biografica (la morte di Richard Wagner, genero del compositore), assurge a paradigma universale in virtù della profondità di ispirazione da cui prende le mosse.

L’inizio [0’01”], una semplice oscillazione della mano sinistra, dice già tutto.
La melodia che si costruisce “per tentativi” (partendo da due sole note, lontano ricordo dell’immortale incipit del wagneriano Tristan und Isolde) [0’07”] è sospesa in una tormentosa attesa di qualcosa che possa donarle l’agognata stabilità.



Poco dopo l’ostinato del basso si interrompe per lasciare spazio a un breve episodio in cui l’inquieto cromatismo della melodia poggia su una figurazione cullante [0’46”].  Un barlume di luce (un timido raggio di speranza?) sembra qui penetrare nella cupa atmosfera che segna il pezzo fin dall’esordio.  La tenue fiammella si estingue però rapidamente (quasi per assenza d’aria) in una desolata scala discendente [1’07”] che sfocia nei secchi accordi che commentano una melodia attonita e sostanzialmente inerte [1’17”].

Con logica inesorabile la implicita domanda iniziale viene riproposta integralmente, anche se in altro contesto tonale [1’39”].  Ancora dunque un palpito di speranza echeggia e nuovamente la desolata scala approda agli asciutti accordi ed alla desolata melodia.

Fin qui la parabola umana tratteggiata dal compositore sembra mostrare con assoluta coerenza una situazione segnata, al fondo, da un ultimo nichilismo.

Se la malinconia è la condizione ineliminabile dell’agire umano nella sua dimensione più profonda, se l’accendersi di una (seppur vaga e financo inconsapevole) speranza è conseguenza di quella medesima sete di senso, risulta dunque supremamente irragionevole sostenere l’inesistenza (o l’illusorietà, che è il medesimo) di quello cui ogni fibra tende spasmodicamente.

Liszt, uomo e artista che per molti versi incarna archetipicamente l’“inquietudine romantica”, non sa né può arrestare la sua ricerca prima di aver, almeno, esaurito le ipotesi.

Così il tormentato episodio finale [3’15”] col suo incessante tremolo, riprende e amplifica la domanda iniziale portandola a temperature espressive al calor bianco. Dopo un culmine dinamico la melodia si fa quindi sempre più tenue fino a scomparire, lasciando il campo, nelle ultime battute, all’inesausta inquietudine della figura di accompagnamento.

Anche quando la domanda non riesce nemmeno più ad essere pronunciata – sembra dirci Liszt – rimane un ultimo turbamento a salvare dalla disperazione il cuore dell’uomo.
Anche da questo limite, da questo lievissimo soffio di consapevolezza, l’umano può sbocciare per essere ricostruito.