Murray Perahia, sessantenne di pura schiatta sefardita newyorchese, ha un’idea elegante e raccolta del fare musica. Il suo tocco (e le sue scelte attuali di repertorio) rimanda a un cuore in fondo trattenuto, reticente.

Il suo Bach limpidissimo, àncora di salvezza nella stagione dei gravi problemi alle mani di vent’anni fa; il suo Beethoven (op.90) fedelissimo e mai eccitato, il suo Brahms malinconico ma così strutturato, ci dicono di un pianista dal supremo controllo dinamico e sonoro, che mai si concede di strafare.



Così le sue “Kinderscenen” di Schumann sono semplicemente perfette, ogni cosa al suo posto, ogni nota fatta risuonare nel modo giusto. Ecco: Perahia è suprema chiarezza e limpidezza, con lui si va al fondo dei grandi maestri e ne vengono dolcezza e mistero, letizia e tristezza.

Il suo fraseggio ha del miracoloso, la sua saldezza ritmica mai devia dal tracciato voluto dai grandi, tanto che persino la tossicchiosa (per via dell’età media e della stagione) sala del Conservatorio del milanese Quartetto, per una volta è dominata dal più assoluto silenzio.



Poi arriva Chopin. Qui il maestro offre slanci e malinconie, passi di danza di orientale  tenerezza (Mazurka op.30 n.4) e grappoli di note dalla sonorità potente (Scherzo op.39). Ma mai il virtuosismo nasconde il canto, il cammino, il percorso.

In fondo Perahia offre i suoi grandi di sempre, come ha fatto sempre, come farà finche potrà. E, come intuisce l’amica pianista accanto a noi un po’ da rabdomante, manca solo un Improvviso di Schubert (l’amatissimo op.90 n.2) per chiudere con bis d’eccellenza una festeggiatissima serata di grande musica.