Non fingiamo per favore, alla mia generazione Nilla Pizzi piaceva poco, per non dire niente affatto, però – va detto – non ci siamo mai neanche dati pena di chiederci come mai. Chissà, forse ci eravamo stufati delle comitive in festa che, dopo la seconda bottiglia di vino, attaccavano immancabilmente Vola Colomba col controcanto in terze parallele come nei canti delle mondine: a noi irritava e basta, non poteva importarcene di meno che quando la canzone uscì, nel 1952, aveva una connotazione “politica”, in quanto il riferimento a San Giusto rimandava a Trieste – allora città libera con amministrazione separata che sarebbe tornata italiana solo due anni dopo – per cui accennare la canzone aveva un senso ben preciso. (Come ridemmo di gusto leggendo Il Maestro di Vigevano di Luciano Mastronardi, nel quale un maestro collega del protagonista del romanzo fa cantare Vola Colomba ai bambini… per prepararli alla Santa Pasqua!).



Ancora meno ci diceva Papaveri e Papere, tormentone degli asili come lo sarebbe stato Quarantaquattro gatti diversi anni più tardi, per non dire di Grazie dei fiori, col quale anzi avevamo un conto in sospeso visto che fra gli autori del testo figurava Giancarlo Testoni, fondatore della rivista Musica Jazz, fatto questo che vedevamo come un tradimento dei nostri ideali di jazzofili – e adesso cosa dovremmo dire di Ornella Vanoni con Paolo Fresu? -; insomma, questa distinta signora ci era davvero estranea.



Col passare degli anni, e con l’ampliarsi della nostra conoscenza non solo musicale, abbiamo potuto inquadrare meglio la personalità della Pizzi, soprattutto nella sua epoca: così abbiamo scoperto che il Maestro Tito Petralia l’aveva allontanata dalla radio nel 1944 perché la sua voce era “troppo esotica” per il moribondo regime fascista, ma soprattutto che fu lei la prima vera diva solista della canzone italiana – che in precedenza al massimo si identificava con l’esuberanza del Trio Lescano o con voci più anodine come Maria Jottini, quella di È arrivato l’ambasciatore – e soprattutto la prima ad essere di esempio anche come modo di vestire e di atteggiarsi, aprendo la strada quindi a personalità come Mina e Raffaella Carrà, le quali riconosceranno sempre il loro debito verso questa signora come testimoniato dal programma Milleluci del 1974 in cui la Pizzi appare vicino alle due citate.



Soprattutto sorprende la grande adattabilità della voce di Nilla Pizzi, che accanto alla canzone “melodica” italiana ha sempre rivelato una sorprendente affinità con la musica sudamericana: tra le sue incisioni possiamo citare Malasierra, delicatamente tratteggiata in preziosa simbiosi con la chitarra di Michele Ortuso, uno dei padri del jazz italiano, pur senza dimenticare Acercate Mas – che noi associavamo a Nat King Cole – oppure Quizas, Quizas, Quizas, altro pezzo onnipresente.

Renato Carosone raccontò in un programma radio che quando  nel 1949 suonava col suo trio (insieme a Van Wood e Gegè di Giacomo) si sentiva richiedere questa canzone più volte in una serata, al punto che Gegè, stufo marcio, ne imbastì una sanguinosa parodia in napoletano, fortunatamente pervenutaci registrata su disco, dove Quizas, Quizas, Quizas diventava Uffàs, Uffàs, Uffàs ; la Pizzi non solo non se ne ebbe a male, ma fece a Carosone il grande onore di incidere una delle prime composizioni di lui, Cocoricò, rivelando così un insolito senso dell’umorismo autoironico.

Al di là dei risultati clamorosi di una carriera pluridecennale, come la conquista dei primi tre posti a Sanremo 1952 – ma ricordiamo che all’epoca si presentava la canzone, non il cantante come adesso – rimane in noi il ricordo di una donna che senza parere ha saputo conquistarsi un posto nel cuore degli italiani, diventando davvero “la regina della canzone italiana” come la definì nello stesso 1952 un giovanissimo Luca Goldoni.

Sarà un caso, ma la scomparsa della Pizzi coincide col sessantesimo anniversario della prima edizione del Festival di Sanremo, quasi a chiudere sinteticamente un ciclo di mutamenti non solo musicali, ma sociali e politici. Grazie, signora!