Libertà. “Condizione di chi ha la possibilità di agire senza essere soggetto all’autorità o al dominio altrui”, secondo il dizionario. In fondo una definizione negativa (non essere soggetti a dominio altrui). Ma è davvero tutto qui?  Davvero solo questa è la libertà che ognuno desidera?

Liszt scrive uno dei suoi brani più avventurosi, la Bagatelle sans tonalité (Bagatella senza tonalità, 1885), proprio sottraendosi programmaticamente al “dominio” del sistema tonale, ovvero di quell’insieme di regole, a quella grammatica musicale che per secoli aveva costituito il perimetro entro il quale migliaia di compositori avevano cercato la bellezza e la verità della loro arte.



Composto originariamente come quarto dei Mephisto-Walzer (quello che oggi è il titolo della Bagatelle figurava come sottotitolo nel frontespizio del manoscritto) il brano rappresenta in maniera esemplare il lato iconoclasta dell’artista ungherese e, in controluce, ci mostra il desiderio di libertà che per tutta la vita ha animato l’opera di Liszt come compositore, come pianista e infine come uomo.



Il riferimento a Mefistofele ci porta immediatamente al contesto faustiano, la figura di Faust, essendo quella dell’anima inquieta che fa del tendere  a un “oltre” imprecisato, al di là di ogni legge morale od umana, la sua ragione di vita.

Liszt si rifà a una versione poco nota del mito romantico, quella di Nikolaus Lenau (1802-1850), nel cui Faust troviamo una scena che colpì profondamente la fantasia del compositore:  Mefistofele entra nell’osteria di un villaggio e, rubando il violino a un musicante di paese, inizia a suonare un valzer fantastico e inebriante, pieno di sinistra, orgiastica energia e costringendo tutti a danzare furiosamente.



Le prime prove sullo strumento dello spirito malefico sono rappresentate in maniera icastica proprio dalle sparute figure con cui inizia la Bagatelle [0’03”], frammenti di melodia, brevi scale che immediatamente lasciano il passo ad una figura mercuriale e danzante [0’13”], vero cardine motivico dell’intera composizione.

La musica procede per rapide figurazioni e brevi fermate, in una sorta di valzer “zoppo” (nell’accompagnamento manca sempre il tempo forte dalla battuta) che si pone sfrontatamente al di fuori di tutte le convenzioni coreografiche (è, tra l’altro, troppo veloce per essere realmente danzato).

Improvvisamente l’inafferrabile sostanza musicale si condensa in due coppie di arpeggi discendenti [0’42”] repentinamente introduttivi alla seconda idea musicale che, in radicale opposizione alla prima, si sostanzia di accordi alternati tra le due mani [0’46”].

La sfuggente, aerea figura portante è completamente scomparsa ma resta, in definitiva, il suo spirito: la musica corre a rompicollo, sempre più veloce, sempre più tesa verso una meta che… non c’è!

L’incalzante cavalcata infatti si infrange contro una battuta di assoluto silenzio [1’00”] e quindi si dissolve nel pulviscolo (quasi un abracadabra in musica) di rapidissimi arpeggi che si dirigono verso l’alto nell’ennesimo tentativo di afferrare l’inafferrabile.

La parabola tracciata fin qui è esemplare.  Liszt (e l’implicito “protagonista” musicale della sua composizione) fa ciò che vuole, danza, scherza, si precipita verso un termine misterioso che costantemente gli sfugge, ma senza il quale sembra non poter restare (i numerosi tentativi di “raggiungerlo” lo testimoniano efficacemente).

E allora, che fare per superare lo stallo?

L’autore prova, letteralmente, a capovolgere la situazione e riprende il brano dall’inizio ponendo in alto (alla mano destra) ciò che era in basso (alla mano sinistra) e viceversa [1’10”].

Come la prima volta, anche qui la musica gira a vuoto.  La libertà di cui il brano è segno appare quella di essere, sostanzialmente, ciò che si vuole e di fare quel che più aggrada ma, evidentemente, anche questo non basta.

L’incessante tremito della musica, la sua incapacità di trovare il “punto fermo del mondo che ruota” (come avrebbe detto Eliot qualche decennio più tardi) è palese.

Così anche il ritorno della seconda idea [1’58”] è segnato da una sorta di “contaminazione” con la febbrile ansietà del primo motivo, ormai dilagante.

Sembra di assistere al dramma che, secondo Sartre, portò Baudelaire a gioire per la condanna del suo capolavoro, i Fiori del male.  Il poeta infatti conosceva bene il potere paralizzante della libertà (apparentemente) incondizionata, ma sostanzialmente senza oggetto.  Secondo il filosofo, dopo la condanna, Baudelaire sarebbe stato certo di essere, agli occhi del mondo, qualcosa… un colpevole

Liszt, segue un’analoga esplorazione delle infinite possibilità musicali, ma è ugualmente senza una meta: sembra poter ripetere le stesse figure sempre più acute, in un vortice senza fine.

Al culmine dell’ascesa l’ordito sonoro viene però repentinamente troncato da una serie di secchi accordi [2’17”] che, in un crescendo poderoso, concludono il pezzo lasciandoci sospesi ed esterrefatti. 

Non siamo approdati a nulla, il discorso è stato, semplicemente, interrotto.

Liszt, sovranamente libero, non più vincolato nemmeno dalla grammatica tonale, compone un brano in cui fa vedere in maniera supremamente eloquente come la malintesa libertà cui abbiamo più volte fatto menzione sia sostanzialmente una condanna.

A che serve agitarsi tanto se poi non sappiamo nemmeno dove dirigerci? È questa la libertà che desideriamo?  Avere la facoltà di muoverci senza scopo?

Il nichilismo contemporaneo (nella sua versione, per così dire, migliore) ci dice che l’importante è continuare a sperare anche se coscienti che ciò cui aspiriamo è un illusione, non esiste…
La ragionevolezza dei semplici dice che se il cuore desidera qualcosa, quella cosa, da qualche parte, dovrà esistere.

La vera libertà dunque non è inseguire tutto quello che ci passa per il capo ma, umilmente, essere sorpresi dalla pienezza della felicità.

Anche nel suo apparente scacco il magistero lisztiano ci aiuta così a capire più profondamente qualcosa di noi.

In fondo non è questo che dobbiamo chiedere ad ogni vera opera d’arte?

Lesile Howard, piano