Lo abbiamo lasciato, neanche da troppo tempo, che scalava le classifiche ufficiali con il disco dedicato alle musiche dei fratelli Gershwin realizzato con Riccardo Chailly, e lo ritroviamo alle prese con un progetto nuovo di pacca interamente dedicato allo spirito libero di Frank Zappa, Sheik Yer Zappa. Già, Stefano Bollani una ne pensa e cento ne fa. Dopo la prima data ufficiale al Bergamo Jazz Festival il 18, e il concerto di ieri sera a Perugia, Bollani farà tappa a Poggibonsi (il 23), Roma (il 25 e 26), Azzano Decimo (il 27), Livorno (il 28) e Cesena (il 29). Sempre accompagnato da una formazione inedita, composta da grandi musicisti internazionali (Josh Roseman al trombone, Jason Adasiewicz al vibrafono, Larry Grenadier al contrabbasso e Jim Black alla batteria).
Perché Zappa?
È un amore della tarda adolescenza, non ricordo quando e perché mi capitò in mano l’album “Does Humor Belong in Music?”. Sicuramente era un periodo in cui compravo qualsiasi cosa ed ero innamorato di lui e dei King Crimson. Zappa per me è un nume tutelare ma non pensavo proprio di omaggiarlo, finché a un certo punto ho capito fosse giunto il momento.
Il repertorio?
Ho preso un po’ da tutta la sua produzione. In alcuni casi sono solo idee da cui prendo spunto per poi scriverci un pezzo originale sopra e improvvisare liberamente: è davvero un lavoro shakerato, un tentativo di suonare nello spirito di Zappa e di fare quello che faceva lui, vale a dire prendere molte informazioni diverse e mescolarle insieme.
Parlando della musica, qual è l’aspetto che più t’interessa dell’artista di Baltimora?
Tutto. Soprattutto l’utilizzo spudorato di materiale di provenienza diversa. In questo senso il titolo mi è venuto abbastanza spontaneo perché è un gioco di parole su un suo famoso disco che lui già aveva intitolato così giocando su un successo pop dell’epoca (il titolo originale era ispirato a (Shake, Shake, Shake) Shake Your Booty dei Kc and the Sunshine Band, n.d.r.). In un brano di quattro minuti era in grado di prendere in giro una serie di generi musicali o di artisti, da Bob Dylan ai Beatles, shakerandoli per ottenere qualcosa di assolutamente personale. Mi piacerebbe ottenere lo stesso risultato. Questo progetto non è un omaggio alla musica e ai brani più famosi di Zappa, anche perché non me ne sarebbe fregato nulla, bensì mi interessa usare Zappa come lui usava Varèse o i cori doo-hop degli anni Cinquanta per creare musica nuova.
Ci presenti i musicisti che hai scelto?
Sono tutti americani. Con Larry Grenadier (contrabbasso) ho suonato varie volte, ho inciso con Enrico Rava ma già suonavamo in trio una decina di anni fa. Josh Roseman (trombone) e Jim Black (batteria) li conosco da anni, ci siamo incontrati tante volte ma non abbiamo mai avuto modo di suonare insieme, non è mai capitato. Il vibrafonista, Jason Adasiewicz, è stata una scelta modernissima, l’ho ascoltato su youtube: cercavo un vibrafono e lui aveva proprio il suono che avevo in testa. Trombone e vibrafono erano una scelta obbligata perché nella musica di Zappa sono stati due strumenti ben presenti e caratterizzanti, ma il vero motivo per cui li ho chiamati è perché cercavo un suono diverso da qualsiasi gruppo avessi avuto.
Zappa diceva: “scrivo brutta musica perché l’America è brutta”. Tu che musica hai scritto?
Questa non l’avevo mai sentita, ma ribatto dicendo che Pat Metheny dichiarava in un’intervista che i musicisti fanno due tipi di musica: ci sono quelli che suonano la musica del mondo in cui vivono e quelli che suonano la musica del mondo in cui vorrebbero vivere. Penso che la maggior parte dei jazzisti appartenga al secondo gruppo, io compreso. Non pretendo e non ho mai preteso di fare musica contemporanea o di raccontare la contemporaneità, perché quello lo devono fare coloro che oggi fanno musica elettronica, probabilmente. Comunque per raccontare questi anni bisognerebbe fare musica bruttina, sono d’accordo.