Non capita tutti i giorni di venire chiamati al telefono dall’artista di cui hai appena recensito il disco. E visto che poi la recensione in questione non era delle più positive, quando sul display del mio cellulare appare il nome “Van De Sfroos”, un attimo di inquietudine prende il sopravvento. Adesso mi copre di insulti, penso, memore di leggendarie battaglie telefoniche ai tempi d’oro della musica rock, quando Lou Reed copriva di insulti il giornalista Lester Bangs. Beh, io non sono Lester Bangs e Davide Van De Sfroos non è Lou Reed, e poi i tempi d’oro del rock sono passati da tempo, se mai in Italia ci sono stati. “Ero alle prove con il mio gruppo e avevo dimenticato il telefonino in agriturismo” si scusa invece il cantautore del lago, dopo che nei giorni scorsi lo avevo cercato per intervistarlo. “Ma sai” dice quando gli spiego che non c’era bisogno di richiamare, “se non si richiamano gli amici”. Beh, allora un amico potrà accettare anche una recensione non proprio favorevole. E ne viene fuori una intervista migliore di quanto pianificato, con l’occasione di discutere proprio “quella” recensione. Non capita tutti i giorni.
La prima impressione di questo disco, vista la formula musicale così distante da quella tua classica, è che l’uso del dialetto questa volta sia quasi superfluo, forzato.
Non sono d’accordo. Questo è stato forse uno dei dischi più personali e nudi possibili, è uscito tutto così com’era. Ci sono canzoni tutte in italiano, mezze in italiano, totalmente in dialetto. Non sono nemmeno stato a scegliere razionalmente cosa mettere, è venuto tutto automaticamente. Il dialetto come lingua non è mai stata una cosa che mi sono sentito obbligato di usare. Certo io ho una padronanza di certe parole di questo dialetto che mi viene naturale e ovvio usarlo anche e soprattutto in territori dove non viene usato ma è anche per come suona, per l’ironia o anche come poetica toccante tanto che è stato naturale e ovvio usarlo senza avere dall’altra parte il problema di cantare in qualsiasi altra lingua, altri dialetti o in italiano. Quello della lingua non deve diventare né un divieto, né un obbligo al contrario.
Un’altra impressione che ho avuto è che i personaggi di “Yanez”, a differenza di quelli di “Pica!”, siano quasi degli sconfitti dalla vita. Quelli del disco precedente avevano sempre uno sguardo positivo sulla realtà, qui invece sembra che siano incapaci di reagire proprio alla realtà.
Anche qui non sono del tutto d’accordo. In questo disco ci sono dei vincenti storti. Facciamo alcuni esempi.
Ti interrompo, ma penso a quel verso in Dona luseerta, in cui dici: “Ridarti la faccia che avevi a 6 anni” , cioè la faccia dell’innocenza e della bellezza…
Ottimo esempio. Il lago non riuscirà a ridarti la faccia che avevi a 6 anni, perché è inevitabile. D’altro canto non è sufficiente un Gesù Cristo legato con il vinavil a farti smettere di sperare, di pregare. Ci sono cose molto forti sia in positivo sia in negativo. Diciamo che l’invocazione a questa fantomatica donna luseerta è la richiesta dell’energia necessaria per continuare ad andare avanti perché ci sono cose forti, a livello cosmico, che tu non puoi mutare, non ce la farà il campanile a fare un buco nella testa del sole così come non sarà una polaroid scolorita a farti dimenticare di tuo padre.
È proprio un fifty-fifty, un pareggio che tu hai grazie alla visione totale delle cose. Questa è stata una canzone molto personale come molte altre nel disco. Anche personaggi come John Long Xanax, una canzone biografica, alla fine non sono dei vinti. Quante volte siamo stati lì con la pastiglietta perché non riuscivamo ad adeguarci a quello che era il mondo che ci proponevano e andavamo a raccogliere i fiori per un motivo o per l’altro. Poi nel momento in cui questo personaggio se ne sta lì in mezzo al prato tranquillo e guarda il suo percorso e non raccoglie più fiori perché sta bene e gli piace guardarli rotolare nel vento senza dover fare più niente per accontentare qualcuno, significa che lui ha trovato la sua strada. Una strada che si è costruito lui con il plettro, con la pastiglia e ha trovato la musica, ha trovato la sua via. Non è uno sconfitto.
Poi c’è Maria…
Maria, che è una “Bocca di rosa” al contrario, arriva, si appassiona a quel luogo e la gente l’accetta di buon grado, non viene cacciata. Non sanno nemmeno se si chiami Maria, capiscono poco del luogo da dove viene però così come molti sono stati cacciati in passato ecco che c’è anche una Maria accettata perché anche se non sarà lei l’amore definitivo di una persona rappresenta una presenza magica che ravviva le giornate tra la gente di un paesino di lago. E perfino la canzone più truce che è Ciamel Amur, parla di questa donna che si sacrifica per uno che nemmeno quasi la conosce. Questo è l’amore estremo e meno premiato, ma per lei la vittoria è stata sapere che lui sta bene ed è salvo nel paese fuori d’italia dov’è arrivato.
È un amore, quello di cui canti, che è quasi sacrificio…
Pensiamo alle cose di tutti i giorni perché anche nella vita di tutti i giorni in una scuola, in una ditta qualcuno più introverso e chiuso si sacrifica magari silenziosamente per una vita, per qualcuno, senza che l’altro nemmeno lo sappia. Allora come vedi non sono personaggi senza speranza, ma sono quelli che hanno trovato un percorso differente per dare un senso alla propria vita, alla quotidianità, alla propria esistenza o anche alla storia fatta e finita. Anche quell’uomo tornato dalla guerra senza una mano, il reduce, ciò che ha perso realmente non è la sua mano, quasi contento di averla persa per ciò che aveva fatto, ma la sua vita rimasta in ostaggio dei ricordi allucinanti. Il problema allora non è la mano persa ma è quell’anello che la moglie ha lasciato nella testa come una promessa, come qualcosa da continuare a pensare e alla fine ci sarà una liberazione. La liberazione accade parlando con quel crocifisso sul muro come dire: ti spiego io la storia con la preghiera, con il sangue che ho speso.
Per cui la salvezza arriva da un incontro con un fatto inaspettato, che però rimane come memoria nel cuore dell’uomo?
Viviamo in tempi di appiattimento totale. Non è cambiato molto dai tempi in cui Aldo Moro veniva trovato morto in una macchina o da quando si tiravano monetine addosso a Craxi. Erano dei capri espiatori, e oggi succede lo stesso. C’è gente ala disperata ricerca di un capro espiatorio, per non pensare al proprio male. Personalmente io lotto con l’arma della mia musica, della mia emotività.
Il brano il Carneval de Schignan mette in scena la festa delle maschere. Il carnevale in fondo è un gioco di maschere dove ci si nasconde. È una dichiarazione di un modo di vedere la realtà nascondendosi dietro a delle maschere?
Il Carnevale di Schignano da quattrocento anni è proprio questo: i Belli e i Brutti, i Bei sono gli immigrati quelli che andavano a lavorare in Francia e tornavano poi ricchi di cose belle e le maschere li rappresentano con il panciotto gigante, pieni di fiori, vestiti colorati, oggetti belli e con l’ombrellino. I Brut sono questi sgorbi con il panciotto molle che sono stati a casa, fanno la fame e si rotolano in giro per le strade facendo cose brutte. Poi c’è la Sigurtà, la sicurezza, una specie di gendarme e poi i due Sapeaur, sono maschere fisse che nel corteo sono proprio questo. Poi c’è la Ciocia, un uomo vestito da donna ed è l’unico che può parlare, che continua a sacramentare contro il marito che fa sempre quello che vuole. Questa è la parodia, un’allegoria di ciò che è successo davvero dentro questo popolo. E come le maschere di quel tempo anche in questo caso un uomo grazie a una maschera che indossa riesce a ritornare e riguardare la famiglia che aveva abbandonato perché era stato in giro, aveva lavorato, sperperato tutto e torna e grazie a questa maschera, perché la sua faccia vera lui non sa nemmeno più com’è, riesce perfino a far ballare la ex moglie poi se ne va.
Una specie di figliol prodigo…
È la maschera come mezzo per riuscire ad attraversare qualcosa e uscirne senza aver fatto vedere ciò che avveniva sotto. Noi quotidianamente abbiamo delle maschere, con alcuni ne mettiamo alcune con altri ne mettiamo altre vuoi per educazione, vuoi per paura o per protezione o per incutere timore. È un gioco di maschere la vita stessa. Se qualcuno deve venderti qualcosa arriva alla tua porta in giacca e cravatta e lampadato, cioè ha la maschera di quello che deve essere vincente mentre uno che vuole l’elemosina avrà una maschera da perdente perché deve farti compassione in qualche modo.
E tu sul palco hai una maschera?
No grazie a Dio no. Sul palco ho solo l’ombrello gigante della musica che porto li… Sul palco posso salire in una giornata in cui sono in vena o in una giornata in cui ho mille problemi miei, ma cerco di far sì che per quelle due ore i miei problemi non arrivino a toccare le persone che vogliono vedere lo spettacolo e quindi uso la chitarra e la musica come un ombrello, come maschera per far arrivare tutto quanto. Più passa il tempo e più mi rendo conto che sto raccontando cose così viscerali, che è come se mettessi in ballo tutto ciò che di nascosto c’è. Per me è come scucirsi una maschera.
Altri tuoi colleghi amano invece nascondersi sul palco. Una volta Bob Dylan ha detto. “Questa sera indosso la mia maschera di Bob Dylan”…
Dice bene Dylan, quella maschera c’è così come dice bene quando dice che il poeta è un uomo nudo davanti allo specchio. Tu ti spogli quando devi scrivere una canzone. E’ anche vero che quando hai questa visibilità mediatica dovuta anche all’episodio sanremese c’è un continuum di giornali, cose che prima non facevi come andare a trasmissioni televisive e radiofoniche, tutta roba che serve per far conoscere cose semi nascoste per troppo tempo a molte persone. Quindi ti svegli la mattina e la gente, il lavoro, il percorso che hai intrapreso, pretende il personaggio Davide Van De Sfroos e tu devi metterti il tuo vestito da Davide Van De Sfroos e andare incontro a tutta questa gente: che siano giornalisti, persone che vogliono incontrare l’autore, che vogliono l’autografo e lì tu non puoi andarci incazzato, stanco, devi infilare la maschera. Ma questo non vuol dire che devi essere diverso da quello che sei perché io sono abbastanza parallelo a me stesso. Loro sono tanti, tu sei uno e devi lucidare questo personaggio perché se lo vuoi fare andare avanti deve diventare il Re dei Non, continuare a sforare la nebbia, la pioggia e quindi Dylan in un certo senso ha ragione.
Una canzone che mi piace molto è La Figlia del Tenente. Com’è nata questa canzone e chi è la figlia del tenente?
Piace molto anche a me. È una canzone gotica, romantica, dark un po’ sullo stile delle ballate alla Nick Cave anche per l’uso del pianoforte. Quando l’ho costruita l’ho fatto pensando a tutti i Romeo e Giulietta dei giorni nostri che per motivi di diverso tipo hanno problemi a frequentarsi alla luce del sole perché magari uno arriva da un mondo che lo ha portato a fare errori e sbagli anche grossi mentre l’altra persona arriva da un mondo del tutto differente. In questo caso abbiamo un ex detenuto che ha fatto il balordo per gran parte della sua vita che sta insieme alla figlia di questo tenente ed è un’unione che ovviamente non è concepibile alla luce del sole ma loro, in quei luoghi tetri e anche squallidi (ci sono civette, preservativi già spesi in terra, chiodi, cani senza una gamba), nel buio della notte, riescono a creare un bagliore alla Twilight. Ecco, sono la risposta un po’ più terrestre di questi amori un po’ dark che vanno di moda oggi nei film dei vampiri. Anche nel Pass del Gatt abbiamo un nano che va insieme a una donna sfregiata in un luogo assolutamente inospitale, una sorta di Arizona di casa nostra, ma quando arriva l’amore anche qui è un qualcosa che può far luce, anche nei luoghi meno sperati. Anche per questi personaggi non c’è sconfitta, anzi guarda cosa può succedere nella notte in quel posto tetro o in pieno giorno in un mondo che sembra pieno di niente, ci sono germi di luce che tante volte vanno a far spuntare storie incredibili anche dove meno te lo aspetti.
C’è una frase molto bella che mi ha colpito nel disco, “in quel luogo dietro i luoghi dove non basterà il mare” E’ proprio vero che nella vita non c’è niente che basta.
Questa canzone è proprio la canzone dell’emigrato. Si è parlato tanto di emigranti per guerra, per lavoro. Qui si parla di emigrati per amore, cioè quelli che devono andare a raggiungere la persona amata a costo di lasciare la propria terra, la propria famiglia, i propri affetti. Questa canzone è diventata molto potente grazie all’innesto di queste quattro lingue cantate anche da altri. Non basterà il mare a fermarmi, ma io raggiungerò quella persona e questo desiderio è più forte dell’appartenenza alla propria terra. Quanti sono partiti, e poi magari sono anche tornati, senza indicazione lasciando quanto di più caro avevano.
Mi ricollego a quel frammento splendido di Rosa del Vento, dove c’è questa esigenza sentita di una presenza perché l’amore non è solo fatto di discorsi ma c’è bisogno di una presenza davanti a te. Uno sguardo nel tuo sguardo.
Sì, è un frammento molto piccolo perché quando c’è di mezzo una sorta di preghiera non ci vogliono molte parole. Non ho mai visto una rosa in grado di graffiare un vento, non ho mai visto un vento che si dimentica una rosa. Se la vogliamo girare in preghiera, non importa di quale religione, non ho mai visto un uomo in grado di graffiare Dio o lo Spirito e non no ho mai nemmeno visto un Dio dimenticarsi di un uomo. Capitano cose belle o brutte nella vita di una persona, ma questa presenza costante di un Infinito sopra di te, che tu la voglia tradurre in religione, o semplicemente filosofia o di spazio tempo questa presenza costante c’è. Era una scheggia che come al solito parlava di vento e questa volta ancora di più.