Il Teatro “Luciano Pavarotti” di Modena e il “Teatro Comunale” di Bologna hanno avuto un’idea interessante: per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia non si sono rivolti al solito “Nabucco”, alla solita “Battaglia di Legnano”, ai “Vespri Siciliani” o “Lombardi alla Prima Crociata”, tutte opere verdiane considerate, più a torto che a ragione, ispiratrici del Risorgimento. Hanno commissionato un’opera nuova a Lorenzo Ferrero, esponente della scuola neo-tonale o neoromantica italiana, accostandola a un grande capolavoro del “Novecento storico” mondiale (pur se anche esso rigorosamente italiano), “Il Prigioniero” di Luigi Dallapiccola, raramente eseguito in Patria (è difficile anche trovarne un’incisione nella lingua originale, la nostra, – conosco quella di Antal Dorati registrata a Washington nel 1974 – mentre se ne possono acquistare in tedesco, inglese e svedese), ma grande successo negli Usa dopo la prima esecuzione americana nel 1962 e diventato addirittura un’opera “di culto” in Polonia, Ungheria e nei Paesi Baltici in quegli Anni Ottanta in cui le popolazioni, vittime del comunismo sovietico, volevano liberarsi dall’oppressione marxista. Ha avuto un centinaio di allestimenti: appena 26 in Italia (quest’ultimo incluso).



Sono due lavori molto differenti: il primo è un’opera d’occasione astuta e gradevole di un Lorenzo Ferrero di cui ricordiamo con piacere specialmente “Marylin”, “Salvatore Giuliano” e “Carlotta Corday” (drammi storici – “Marylin” è 12 scene dell’America Anni Cinquanta” – così come “Risorgimento!” è una commedia storica); “Il Prigioniero” è, invece, una delle maggiori opere dodecafoniche del Novecento, basata su una frase di Nietzsche che Dallapiccola (docente, pianista e  compositore di cultura vasta e profonda) amava ripetere: “E se tu guardi a lungo dentro l’abisso, anche l’abisso guarda dentro di te”.



Ascoltando la seconda dopo la prima si fa un lungo viaggio a ritroso: da una musica contemporanea accattivante – in un’intervista Ferrero ha dichiarato come la missione del musicista sia quella di attrarre il pubblico, specialmente quello più giovane – si va ad una partitura durissima per smisurato organico, grande coro e voci specializzate nelle emissioni richieste dalla dodecafonia.

In “Risorgimento!”, Verdi esce dalla porta ma rientra dalla finestra (come senatore e voce recitante nel finale, che si immagina alcune decadi dopo l’opera vera e propria). L’atto di circa un’ora si svolge nella sala prove del Teatro alla Scala dove, in attesa di ottenere gli ultimi bolli autorizzati dalla censura austriaca, si sta preparando la messa in scena del “Nabuocco”. Ci si basa, quindi, sulla vecchia leggenda, ormai sfatata, secondo cui “Nabucco” e il coro “Va Pensiero” sarebbero stati tra i motori del movimento di unità nazionale. 



Nell’intreccio il maestro sostituto amoreggia con il mezzo soprano, l’impresario (mazziniano) e  (incredibile!) Giuseppina Strepponi fervono di amore patrio e il visto dei censori austro-ungarici arriva al momento opportuno. Una commedia da educande e una partitura ascoltabile, ma facilmente obliabile; entra da un orecchio ed esce dall’altro. Difficile dire se attrarrà giovani tanto i temi trattati sono distanti da quelli che preoccupano le nuove generazione (cercare lavoro, mettere su famiglia, trovare un impegno sociale). La regia (Giorgio Gallione), l’allestimento scenico (Tiziano Santi, Claudia Pernigotti, Andrea Oliva), Michele Mariotti alla guida dell’orchestra del Teatro Comunale di Bologna e una squadra di giovani cantanti (Valentina Corradetti, Annunziata Vestri, Alessandro Luongo, Alessandro Spina, Leonardo Cortellazzi) fanno di tutto per ravvivare lo spettacolo. Resta, però, come un dono mediocre, pur se  offerto in carta dorata e infiocchettata. Difficile che venga incluso tra i lavori memorabili di Lorenzo Ferrero.
 
Tutt’altra cosa il capolavoro di Dallapiccola. Ne “Il prigioniero” è il protagonista a specchiarsi nell’abisso: la voce suadente del suo carceriere gli infligge l’ultima tortura – la speranza della liberazione – prima di consegnarlo al Grande Inquisitore e al rogo. Nel 1950, “Il prigioniero” venne accusata di anti-comunismo viscerale,  (sono evidenti i nessi con Koestler, con Sirone e con i lavori “dissidenti” di Sartre). Venne pure tacciato di essere “un groviglio di suoni tale che neanche l’orecchio più educato e più svelto riuscirebbe a districare” (così scrisse “L’Unità”). Da allora, si sono avuti, come si è detto, un centinaio d’allestimenti in tutto il mondo, nonostante che per decenni sia rimasta una prevenzione negativa in Italia , anche a ragione dell’apparato orchestrale e vocale che richiede e della ritrosia di sovrintendenti nei confronti della dodecafonia. A questo segno di vitalità internazionale, si aggiunge il riconoscimento ormai universale che Dallapiccola  è stato un punto di riferimento per tutta la musica contemporanea, soprattutto per quella postasi sul solco della dodecafonia: in un libro del 1978, il musicologo americano, Ethan Morden definisce “Il prigioniero” come “l’esperienza ultima ed estrema del viaggio dell’opera moderna alla volta del mito”.
 
La produzione presentata a Modena il 26 marzo e che, con “Risorgimento!” sarà a Bologna sino al 16 aprile è di alto livello, Il merito va in gran misura alla direzione musicale del giovane Michele Mariotti (una delle nuove bacchette italiane che più si sta affermando a livello internazionale), visibilmente esausto dopo i 45 minuti della concertazione di una delle partiture, al tempo stesso, più complesse e più trasparenti del Novecento italiano in cui tre temi seriali a dodici note si intrecciano, si accavallano e si giustappongono; l’orchestra è stata collocato non solo in buca ma anche nelle barcacce di prim’ordine. Mariotti ne ha tratto il voluto senso di angoscia, sofferenza ed allucinazione, superando, a mio avviso, anche l’eccellente direzione orchestrale di Bruno Bartoletti a Firenze nel 2004 (in occasione delle celebrazioni del centenario dalla nascita di Dallapiccola) poiché Mariotti fa meglio comprendere il nesso tra Dallapiccola e Berg, una serialità non matematica ma disperante e struggentemente umana. Immaginativa anche la regia: con una serie di siparietti e un abile gioco di luce si va dalla prigione, ai cunicoli per uscirne, al giardino della beffa finale.
Tra le voci, eccellono Chad Amstrong, il protagonista, Valentina Corradetti, la madre, e Armaz Darashvili nel doppio ruolo del carceriere e del Grande Inquisitore.