Nel 1968, mentre nelle strade di mezzo mondo infuriava la rivoluzione, Bob Dylan se ne stava tranquillamente nella sua casa di campagna nei dintorni di New York, a sfornare figli uno dietro l’altro arrivando a quattro. Nel 1969, invece, quando si tenne a Woodstock (proprio perché lì vicino ci abitava lui, Dylan, che gli organizzatori volevano disperatamente e inutilmente) il leggendario festival rock più importante di tutti i tempi, come avrebbe scritto anni dopo nelle pagine della sua autobiografia, desiderava solo avere un fucile per sparare nel sedere a tutti quegli hippie capelloni che entravano di nascosto nella sua proprietà.
Cercavano la “voce di una generazione”, “l’arma segreta del 68” e quant’altro. Eppure Dylan, già anni prima, aveva dichiarato a chiare lettere che la politica era quanto di più lontano dalla sua visione delle cose. Nella canzone My Back Pages, del 1964, cantava: “Un professore troppo serio per indulgere in sciocchezze sputava che la libertà è solo uguaglianza nelle scuole, “Uguaglianza” ripetevo la parola come fosse un voto nuziale, ah ma ero molto più vecchio allora, sono molto più giovane adesso”. E ancora: “Sia fatto a pezzi l’odio, io urlavo, menzogne che la vita è bianca e nera (…) In posa da soldato puntavo la mano senza tema di mutarmi in mio nemico non appena mi mettessi a predicare”. In risposta, sempre nel 1964, Irwin Silber, editore di un magazine di musica folk di sinistra definiva Bob Dylan un venduto perché non scriveva più canzoni “impegnate politicamente”.
I tempi non sono cambiati. Fa sorridere leggere in questi giorni le critiche irose (e infarcite anche di grossolani errori storici, come ha fatto una delle maggiori testate italiane che in un servizio da Pechino ha detto: “Bob Dylan ha dovuto rinunciare anche a suonare Hurricane!“. Di fatto Bob Dylan ha suonato per l’ultima volta quella canzone nel dicembre del 1975…) che si trovano in questi giorni sui giornali di tutto il mondo a proposito dei concerti che il cantautore ha tenuto in Cina e in Vietnam.
Cos’è successo? I governi cinesi e vietnamiti hanno chiesto di conoscere (come succede sempre quando un artista occidentale si reca a esibirsi nei loro paesi) la lista dei brani che Dylan avrebbe cantato, per indicare quali, dal contenuto “sovversivo”, sarebbe stato meglio non fare. Pare che in questa lista (ma nessuno lo sa con esattezza) ci fossero Blowin’ in the Wind, The Times They Are A-Changin’ e Desolation Row. Il peccato di Bob Dylan sarebbe allora quello di aver acconsentito ad autocensurarsi. “Peggio di Beyoncè che canta per Gheddafi”, ha scritto il New York Times. Immorale, traditore, venduto, piccolo borghese, hanno aggiunto altri. Invece di denunciare i regimi dittatoriali di Pechino e Saigon si è piegato alle loro richieste per qualche dollaro. Ma scusate: non era proprio a Pechino e a Vietnam che guardava ogni buon sessantottino?
Ma non basta. Vale la pena ricordare che quando Bob Dylan suonò per il Papa, nel 1997, ricevette critiche altrettanto irose dalla stampa di sinistra – ma anche di destra – perché così facendo tradiva gli ideali del ’68. Oggi riceve critiche dai giornali di destra – ma anche di sinistra – perché avrebbe accettato di non cantare alcune canzoni che il governo cinese e vietnamita considerano sovversive.È dagli anni 60 che Bob Dylan si trova nel fuoco di sbarramento dei due schieramenti politici. Un motivo c’è: Bob Dylan è uomo libero, lontano da qualunque ideologia. Quando nel 1965 attaccò la spina della chitarra elettrica al festival folk dei puristi (di sinistra) venne preso a fischi e accusato di essere un traditore. A tutti questi, verrebbe da chiedere se è più sovversiva Blowin’ in the Wind (che il governo cinese ha chiesto di non cantare) o Like a Rolling Stone (che invece Dylan ha cantato).
Ovviamente lo è di più la seconda, perché ha letteralmente cambiato il modo di pensare di milioni di giovani di tutto il mondo, con un impatto che nessun altra canzone ha mai avuto nella storia. Senza bisogno di slogan politici. Ogni canzone di Bob Dylan è sovversiva a modo suo. A Pechino ha iniziato il concerto con un brano scritto durante il suo periodo di conversione al cristianesimo, Gonna Change My Way of Thinkin’, che tra gli altri versi dice: “Cambierò il mio modo di pensare, mi farò un nuovo ordine di regole” e anche “Così tanta oppressione, non la sopporto più”. Non è sovversivo, questo? Ma il punto non è questo. Il rock, si sa, o si dovrebbe sapere, è sovversivo in quanto tale. Nel ’68, i futuri dissidenti come Vaclav Havel preparavano la loro rivoluzione ascoltando in segreto gruppi rock come i Velvet Underground. I Beatles hanno cambiato la società degli anni ’60 cantando She Loves You Yeah Yeah, non Revolution (che peraltro si schierava contro la rivoluzione).
Il problema è che le redazioni dei quotidiani, in Italia come a New York, sono ancora piene di sopravvissuti del ’68, ancora in difficoltà a capire che i tempi sono cambiati. Che il solo fatto che Bob Dylan si sia presentato su un palcoscenico di Pechino e di Ho Chi Min City, sia un fatto di per sé sovversivo sfugge a chi deve sempre dettare regole di comportamento che obbediscano a certi schemi di moralismo militante. Che Bob Dylan costringa il governo cinese a preoccuparsi di lui, vuol dire che è considerato un sovversivo. Che i giovani cinesi dopo questo tour andranno a cercarsi i testi delle sue canzoni su Internet, è un atto rivoluzionario. Bob Dylan, oggi come quarant’anni fa, sfugge a qualunque tentativo di essere incasellato. A fine maggio compirà 70 anni: è molto più giovane di tanti editorialisti e giornalisti assortiti in circolazione. Il che, pensando che in realtà Bob Dylan ha più anni di quanti ne abbia la Repubblica Popolare Cinese, porta tutta questa “intricata” faccenda a una semplice conclusione: rock’n’roll batte comunismo uno a zero.