Il titolo Carne con gli Occhi prende spunto da una frase in dialetto siciliano: quando noi siculi diciamo “si nu pezzu di carni cu l’uocchi” facciamo riferimento a chi non ha spina dorsale; ai soggetti passivi che non sanno prendere decisioni; a chi va a rimorchio degli altri, senza farsi da solo una sua propria opinione sulle cose. I Marta sui Tubi ci ricordano che Carne con gli Occhi siamo noi quando spegniamo il cervello; Carne con gli Occhi sono i corpi “ammiccanti” della TV, che si muovono senza dir niente; Carne con gli Occhi indica la disumanizzazione dell’essere umano, quando si lascia imporre gusti, pensieri, modus operandi. Ma, soprattutto, i ragazzi ci intimano che Carne con gli Occhi lo si diventa quando si smette di pensare che si può essere sempre qualcuno di meglio che non qualcosa di precostituito, precotto o calato dall’alto sulle nostre teste.
Prodotto da Tommaso Colliva (già al lavoro con Muse, Afterhours, Calibro 35), il quarto album della band marsalese (TP) – trapiantata a Milano – è di sicuro il più asciutto e secco della loro coraggiosa discografia: dopo le acustiche fascinazioni sospese del geniale esordio Muscoli e Dei; dopo la via sperimentale alla canzone italiana di C’è Gente che Deve Dormire; dopo Sushi & Coca, sicuramente il loro lavoro più musicale, ambizioso e completo, ecco la diretta freschezza senza fronzoli di Carne con gli Occhi.
Nell’iniziale Basilisco fanno capolino echi di quel sound di Seattle tanto caro alla band: chi li segue fin dall’inizio – come il sottoscritto – non potrà che ricordare con quanta passione, senza mai risultare agiografici, i nostri inserissero in scaletta brani un tempo chiamati grunge, come River of Deceit del supergruppo Mad Season (vertice artistico assoluto di quell’intera scena, insieme ai Temple of the Dog). Nella coda finale del pezzo apripista, infatti, l’intreccio tra il violoncello di Mattia Boschi e la chitarra acustica di Carmelo Pipitone rimanda alle ultime cose degli Screaming Trees di Mark Lanegan o ai Pearl Jam più free-form di No Code.
Le parole di Giovanni Gulino, come sempre, sono immagini inesorabili e memorabili. Con Cristiana (primo video e singolo tratto dal cd) questa sensazione continua, ma – oltre a differenziarsi per un testo apparentemente più spensierato, ma decisamente toccante – la canzone offre uno special vocale con un’apertura da brividi e un violoncello mai così sapientemente usato in una rock n’ roll band (come amano definirsi i ragazzi) italiana.
Le cose più belle son quelle che è la prima novità del disco: testo che s’appoggia a citazioni letterarie miste a quadri di quotidianità, inserto musicale con vocina recitante cara alle sperimentazioni di tradizione Mike Patton/Ipecac Records, riff di chitarra diretto, semplice e sincopato.
Poi arriva Guinzaglio e casca giù il soffitto: Carmelo Pipitone – sicuramente fra i più creativi chitarristi italiani in assoluto – si fa un giro dalle parti della Touch&Go e ci regala sferragliate di chitarra acustica che pungono quanto un qualsiasi disco con Steve Albini in cabina di regia, mentre Giovanni Gulino e la sua istrionica voce creano saliscendi emotivi che sono l’ideale contrappunto allo spettacolare drummingdel palermitano Ivan Paolini.
La title-track dispiega tutto il lirismo del cantante, fra i pochi parolieri italiani oggi in grado di riuscire nel difficile compito di essere realista/verista e poetico/evocativo al tempo stesso. Camerieri inizia con un arpeggio in fingerpicking dal retrogusto ispanico, ma suonato alla velocità della luce. Rendo personalmente grazie, a nome di tante di persone, all’autore del testo: chi ha fatto o fa quel mestiere si riconoscerà nelle parole spietate, ma mai così vere, che raccontano uno di quei lavori/scialuppa per forza di cose fatti da studenti o aspiranti artisti con tanta dignità e abnegazione.
Muratury continua nel difficile, ma centrato, compito di tracciare quasi ex-novo certe trame strumentali del gruppo e spunta un po’ d’elettricità – che non guasta – nella sei corde di Carmelo, mentre le schegge della sua chitarra determinano l’umore sia delle trame ritmiche, che della voce schizzatissima di Giovanni: se si escludono Edda (ex Ritmo Tribale, oggi ispiratissimo solista) e John De Leo (ex Quintorigo), pochi – in Italia – hanno il talento di trasfigurare e piegare la propria voce in uno strumento musicale multidimensionale come fa Gulino. Il finale funk del pezzo, in stile Sly & The Family Stone del Mediterraneo, è fra le cose più fresche mai sentite in Italia in ambito rock.
Coincidenze è figlia di bending chitarristici e archi incisivi di violoncello, coi sempre puntuali e waitsiani controcanti di Carmelo, ad affiancare le evocative frasi di Giovanni.
Il Traditore riporta un po’ d’inedita elettricità e l’immaginario musicale torna a essere Seattle, faro d’ispirazione per tutti quelli (beati noi!) che hanno avuto la fortuna anagrafica di vivere in diretta quell’irripetibile stagione musicale che ci ha cresciuti.
Chiude Cromatica, proposta già dal vivo quest’estate e che ho avuto il piacere d’ascoltare in anteprima ai Mercati Generali di Catania: il testo riecheggia la poetica di Rimbaud, giocando con le sensazioni suscitate dal potere evocativo dei colori, un po’ come il poète maudit francese aveva mostrato nel componimento Vocali e in certi versetti della sua ultima raccolta compiuta Le Illuminazioni.
Insomma, una tensione artistico/narrativa che scorre incessante lungo tutti i solchi di questo nuovo lavoro; un gruppo ultra compatto nell’assecondare qualsiasi movimento sonoro all’interno delle canzoni; la dimostrazione compiuta che – anche in Italia – si può fare musica creativa, pensante e comunque arrivare diretti al pubblico, ben più preparato e competente di quanto alcuni miopi discografici della moribonde major si ostinino ancora a credere. I Marta sui Tubi questo lo sanno e lo sanno fare bene, come altrettanto bene sanno arrivare al cuore, alla testa e alla spina dorsale – nei loro inattaccabili live – delle persone.
(Giuseppe Ciotta)