VAN DER GRAAF GENERATOR – A GROUNDING IN NUMBERS – Ridotti a trio i Van Der Graaf Generator sono tornati a far ascoltare la loro coltissima e a tratti shopenaueriana voce musicale. Band inglese in azione dal ’69 (anno del loro esordio con The Aerosol Grey Machine e del loro concerto di spalla a Jimi Hendrix), i VDGG (l’acronimo è così celebre da essere d’uso comune anche su web) sono stati a lungo uno dei nomi simbolici del progressive rock, insieme a Genesis, Yes, Emerson-Lake and Palmer, King Crimson e Gentle Giant. A differenza degli altri bei nomi del periodo, Peter Hammil (voce e leader del gruppo, oltre che produttore e poeta: interessante la sua raccolta Killers, Angels, Refugees, pubblicata alla fine degli anni Settanta) e soci hanno sempre evitato le composizioni basate su narrazioni fantastiche, medievali, metafisiche o mistiche, scavando come solipsisti nei temi più colti e depressi della loro epoca, ricavandone una miscellanea artistica ostica, comunque trasformata in magia in un disco memorabile come H to He, Who Am the Only One.



Dopo lunghi silenzi e oltre venticinque anni di lontananza dal palco, i VDGG oggi sono un trio con Hammill, Hugh Banton all’organo e Guy Evans alle batterie (è stabile la defezione di David Jackson, originariamente ai fiati), formazione che nel giro di cinque anni ha prodotto due dischi interessanti (Present e Trisector) che hanno risvegliato l’interesse del pubblico degli affezionati e anche di nuovi giovani fan.



Il nuovo disco, A Grounding in Numbers, arriva a coronare questo periodo di rinascita, certificato anche da un’applaudita tournée europea attualmente in corso. Il nuovo prodotto è… decisamente interessante, avvolgente, pur nella sua eccentricità. Fin dall’esordio espone sul palcoscenico tante tastiere, una voce che alterna sospiri a pieni baritonali, chitarre al minimo e il solito basso a pedale: Your Time Starts Now e Mathematics raccontano frammenti insoliti, lasciando sempre nel mistero del non detto il vero senso (se c’è) della narrazione. Certo l’ascolto di brani come Embarrassing Kid, Medusa o Mr Sands realizza un effetto particolare: tra suggerimenti di gelido jazz e terzine di estrazione classica, l’ascoltatore ha la sensazione di trovarsi in un mondo alieno, differente da quello in cui solitamente si trova a rincorrere i suono di un rock forse troppo spesso velocista e infastidito dai silenzi e dalle pause.



Due strumentali nel set del nuovo disco (Red Baron e Splink) confermano l’intensità sintetica  del suono dei tre, che continuano a raccontare storie sonore apparentemente immobili (Peter Hammil e Steve Winwood erano anche nei loro anni d’oro le due rockstar più statuarie sui palchi di mezzo mondo….), mai troppo semplici nel loro apparentemente normale sviluppo armonico e ritmico. Hammil conferma la sua statura, assimilabile (per influenza) a quelle di Fripp e Wyatt, più che agli altri santoni del progressive, e lascia in pezzi di vera bellezza come Bunsho e All Over The Place la sensazione di un musicista che (come dice spesso ai media) “non si fermerà mai finché esistono nuovi territori su cui addentrarsi”.

Spesso si associa il progressive alle eccezionali caratteristiche tecniche dei suoi protagonisti storici da Steve Howe e Keith Emerson. Ancor più spesso si collega il genere alle acrobazie musicali degli ultimi portabandiera, dai Dream Theater ai Transatlantic. L’ascolto di Grounding in Numbers va in direzione opposta, confermando l’unicità di questa formazione, sempre rimasta nella nicchia del “non-rumoroso” e del “non-roboante”. Un “non-rock” difficile (anche se più digeribile che in un certo passato) che si presentava già negli anni Settanta come “musica per le menti” e che oggi potremmo indicare come “musica per chi accetta di non fermarsi alla superficie cutanea”. Con tutti i pericoli connessi…