UN SENTIERO VERSO LE STELLE. SULLA STRADA CON BOB DYLAN – PAOLO VITES – Che Bob Dylan compia 70 anni è una cosa che ormai interessa solo una nicchia più o meno vasta di appassionati, di detentori della memoria storica della musica pop-rock, di giovani incomprensibilmente dediti ad attività di archeologia musicale, di studiosi dei rivolgimenti socio-culturali della seconda metà del Novecento.



Settantanni e (circa) 45 dischi, compreso il recente In Concert – Brandeis University, preziosa testimonianza di un’esibizione del ’63, decine di donne, cinque figli (ufficiali), quantità colossali di sostanze stupefacenti, alcune canzoni eterne e soprattutto (come Beatles e Miles Davis) il destino di chi genera qualcosa, di chi apre la strada, di un patriarca. A lui, al settantenne Zimmerman e alla sua musica, Paolo Vites ha dedicato una trentina d’anni di esistenza e professione giornalistica, comprando i suoi dischi belli e pure quelli brutti, ascoltando canzoni, traducendo significati più o meno arcani, scandagliando un’umanità scontrosa, spesso inafferrabile.



In questi giorni Vites ha pubblicato il suo ultimo lavoro su nonno Bob, “Un sentiero verso le stelle. Sulla strada con Bob Dylan” (Pacini editore, 210 pag, 18€), lavoro che segue le tracce della presenza, dell’assenza e della poetica dylaniana attraverso storie personali scandite da una serie di concerti, a partire da quello famoso dell’Arena di Verona (1984) sino ad una recente esibizione londinese. Le biografie sono una cosa. Chi cerca prodotti del genere su Dylan deve cercare il Bob Dylan di Anthony Scaduto o il No direction home di Robert Shelton.

Chi desidera studi e saggi sulla sua opera musicale ha pane per i suoi denti con i volumi di Paul Williams e Clynton Heylin, oppure con un altro libro di Vites, Bob Dylan 1962-2002. 40 anni di canzoni (Editori Riuniti) o con il magico Bob Dylan at the Crossroads di Greil Marcus. Pagine e pagine di belle informazioni, di richiami e rimandi, di approfondimenti e note storiche. Ottimo. Ma quello di cui parliamo oggi è un libro differente.



Evitando l’incedere biografico, Vites racconta di Dylan e in realtà coglie l’occasione per raccontare di se stesso, di come si può cercare dentro e attraverso la musica. Lui, giornalista ligure, ha seguito decine e decine di concerti dell’autore di Like a Rolling Stone, ha incontrato le sue guardie del corpo, i suoi musicisti, le sue donne e in queste pagine questo sottobosco brulicante di dialoghi, emozioni e osservazioni diventa descrizione della vita recente del musicista che più di ogni altro ha segnato la cultura del nostro tempo.

Ci sono racconti di concerti memorabili (Palatrussardi ’93, Madison Square Garden 2001), ma anche serate da cestinare, visto che per fortuna, sua e nostra, Dylan non è preso da Vites a scatola chiusa; così certi concerti ottengono un voto bassissimo (già, perché ogni “scheda narrativa” è accompagnata dalla scaletta completa e da un giudizio valutativo sulla serata) e la dove serve la critica è impietosa verso scelte di musicisti di bassa lega o verso serate indegne. Nello scorrere delle pagine si rivela il tentativo dell’autore: cercare di entrare (tutti insieme, chi scrive e chi legge) dentro i meandri psico-umano-religiosi di una vita da Dylan, cosa impossibile forse persino per lo stesso Dylan. Ma anche se il tentativo è impossibile, Vites lo tenta, giocando la carta della buona leggibilità, di un dizionario estroverso, facile da leggersi e non musicalmente tedioso. Le immagini si concatenano alle canzoni, i personaggi alle vicende.

È naturale che leggendolo uno provi a confrontarsi ed è (purtroppo) capitato anche a me di avere a che fare con la coppia Vites-Dylan nel bel mezzo della lettura, chiedendomi “e io, come e quando l’ho incontrato questo Dylan?”. All’inizio, per me almeno, c’è stata The Freewheelin, poi subito Highway61 Revisited, poi la sua esibizione al concerto per il Bangladesh, una illuminazione. Poi le sue canzoni sono diventate ciliegie, golose per orecchie e cervello. Ho visto Dylan a San Siro, ma non ricordo quasi niente, si sentiva da schifo; ho poi rivisto a Torino il Dylan accompagnato strepitosamente da Tom Petty ed è il concerto per me simbolico e insuperabile del nostro; poi l’ho visto a Bologna in una serata di diluvio, con Van Morrison; qualche anno fa l’ho ascoltato (ancora dopo un acquazzone terrificante) nel parco di Villa Pisani, a Stra: era luglio 2004 ed era meglio starsene a casa. No credo che lo vedrò questa estate: adoro gran parte delle sue canzoni, ma non ne respiro il mito, che invece è parte integrante del libro di Vites, che viene arricchito anche da una prefazione di John Waters e di contributi di Steve Wynn, Eric Andersen ed Eliott Murphy, musicisti di importante tradizione rock e folk, che aggiungono considerazioni personali a un libro che si legge d’un fiato.

Parlando di una canzone “minore”, Mississippi (nella versione delle Bootleg series), Vites dice che questo brano “è la conferma che Bob Dylan è stato la più grande voce narrante del suo paese, almeno dai tempi di Walt Whitman, e ancora non si vede un suo erede adeguato. In migliaia di hanno provato, ma nessuno ha raggiunto le vette su cui Dylan si è seduto per scrivere un brano come questo. Non resta che mettere questa versione del brano in repeat e ascoltarla fino allo sfinimento. Prima o poi, magari, ci svelerà il suo segreto”. Che Dylan abbia un segreto, questo è certo. Questo libro potrebbe contribuire, per tutti, ad avvicinare al suo svelamento…

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