Tra gli anniversari e le ricorrenze della musica rock di questo periodo – compie gli anni Bob Dylan e si ricorda la scomparsa di Bob Marley – non c’è da dimenticare un’altra data che fa da caposaldo a gran parte del rock e del blues: 100 anni fa, infatti, nasceva ad Hazlehurst, nel Mississippi, il signor Robert Johnson, conosciuto urbi et orbi come il padre del deltablues. Una vita enigmatica, trascorsa girovagando e suonando la sua chitarra nel Delta, conclusa tragicamente nel 1938, a soli ventisette anni, quando Robert finì assassinato dal proprietario di un locale per neri, geloso per la corte che il musicista faceva alla moglie.



Negli anni i suoi blues sono diventati parte integrante del miglior dizionario del rock, da Sweet Home Chicago a Come On in My Kitchen, ripresi da tutti i più grandi musicisti, da Clapton ai Blues Brothers, dagli Stones ai Led Zeppelin. Senza contare che la leggenda dell’incrocio dove il diavolo attende per conquistare l’anima del musicista ramingo in cerca di successo, viene proprio da lui e dalla sua Crossroad. È chiaro che chi vuole sentire le versioni originali dei blues di Johnson – interprete dalla voce stridula e indimenticabile e dallo stile chitarristico decisamente personale – deve fare di tutto per mettere le mani su una copia di The Complete Recordings; in alternativa si può orientare sui dischi di “Slowhand” Clapton, Me and Mr.Johnson o del più verace ed acustico John Hammond, At The Crossroads. Dopodiché, inutile dirlo, di versioni tratte da Johnson è piena la discografia del pianeta, dall’immortale Ramblin On My Mind della Marshall Tucker Band (inclusa nella parte live di Where We All Belong) alla Sweet Home Chicago che Steve Miller ha inserito nel suo ultimo cd, Let Your Hair Down (interessante, ma senza esagerare).



Ma vorrei qui segnalare due tributi al padre del delta blues che hanno doti e pregi a loro modo divergenti. Il primo è il bellissimo 100 Years of Robert Johnson che Big Head Todd, chitarrista e cantante del Colorado (ma di origini coreane) ha inciso in compagnia di gente come B.B.King, Charlie Musselwhite, Honeyboy Edwards e Cedric Burnside. Il disco suona stupendamente autentico, non scontato (la versione di Crossroads blues con il vecchio BB è da antologia dell’inatteso, mentre Sweet Home Chicago è un tributo alla vera e sporca vena del Delta), caldo e godibile.  Big Head è in circolazione ormai da quasi due decenni e fa parte dell’universo delle jamming band; è un musicista di qualità e la sua band, i Monsters, sanno puntualizzare un suono a metà tra l’americana e il southern, ma mai hanno saputo offrire personalità come in questa sincera celebrazione del blues, elettrica senza esagerare, acustica in un senso antico.



Su un pianeta lontanissimo si situa invece Johnson, di Todd Rundgren, inaspettato tributo al blues da parte di uno dei musicisti più sperimentali e sfaccettati del rock mondiale. Certo il musicista di Philadelphia è nato con il blues (come tutti, in fin dei conti), ma se n’è sbarazzato presto realizzando con gli Utopia una delle migliori visioni del prog-sperimentale americano. Questo suo disco dedicato al blues è sovraccarico di produzioni piene e devastanti (strepitosa Stop Breaking Down), divertenti rockabilly (Kind Hearted Woman) e presenta ogni tanto qualche vezzo di spacemusic e arrangiamenti che sanno di power-rock (in Traveling Riverside Blues e addirittura nella versione lentissima di Sweet Home Chicago). E’ un disco poderoso e ben suonato, con una voce aggressiva ed un suono complessivo che suggeriscono la sensazione che Rundgren esca dal seminato, ma in realtà non bisogna far l’errore di pensare che questo sia un disco di blues: è un album di Rundgren-blues, come d’altra parte l’Another Live dei suoi Utopia conteneva suggerimenti di blues miscelati alla musica classica.

Big Head e Rundgren sono due esempi radicalmente opposti di come celebrare il centenario di Robert Johnson a dimostrazione di quanto queste genere abbia influenzato e lasciato tracce, abbia costruito carriere ed abbia rappresentato base di partenza per viaggi musicali imprevedibili (basti pensare che, come Rundgren, pure i Pink Floyd, a modo loro, sono salpati da una solida base blues). I due Todd hanno inciso due prodotti diversi per palati differenti. Ma in ogni caso prodotti di qualità e questo è abbastanza, in giorni di anniversari, tempi in cui le case discografiche e gli artisti di ogni latitudine fanno a gara per “ricordare” al meglio i festeggiati, tra cose strane e bizzarre, belle o solamente furbissime. Termino con una digressione dylaniana, visto che tra le incisioni insolite si va ad iscrivere senza dubbio John Wesley Harding, bel disco della folksinger britannica Thea Gilmore che ha registrato e inciso esattamente le stesse canzoni del celebre album di Dylan datato 1967 (quello di All Along The Watchtower e I’ll Be Your Baby Tonight): quando si dice fedeltà all’originale…